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19/04/24

Lo spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana


Categoria: LIBRI
Pubblicato Lunedì, 25 Agosto 2014 17:31

I dipinti che Adriana Dragoni sottopone alla nostra attenzione nel libro “Lo spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana” (Tullio Pironti Ed., 2014), raccontano una visione del mondo che emerge attraverso un’insolita e moderna lettura interpretativa, la quale non è solo l’esito di uno studio analitico da parte dell’autrice, ma sintesi di intuizioni quotidiane di cui ci fa sentire confidenzialmente partecipi.

 

Un’indagine viva che ha inizio dalle fresche impressioni di bambina di fronte ai capolavori della Certosa di San Martino e che prosegue negli anni arricchendosi del contributo dell’esperienza e delle conoscenze acquisite, sullo sfondo di una Napoli aperta a tutte le possibili contraddizioni e, proprio per questo, profondamente umana.

 

Il punto di vista “privilegiato” da cui l’autrice capta la vastità di significati in seno alla città partenopea, per ricondurli a un pensiero strutturato e complesso che affonda le proprie radici nell’illuminismo ai tempi dei Borbone, è la veduta settecentesca.

 

Il genere pittorico, da anni oggetto di una sempre più approfondita rivalutazione, viene qui riconsiderato sulla base di acute osservazioni che tengono conto delle differenze socio-politico-culturali esistenti tra le diverse aree della nostra penisola nel secolo dei “lumi”, con una capacità confutativa rispetto alle teorie della critica ufficiale, la quale ha sostanzialmente riconosciuto l’olandese Gaspar Van Wittel (padre del “nostro” Vanvitelli) come precursore del vedutismo, ricollegando il genere della veduta all’ideologia illuminista in funzione della sua riproduzione oggettiva e scientifica del paesaggio reale.

 

Dragoni percepisce che la peculiarità della veduta napoletana del Settecento, con le sue “stranezze” parse ai più come errori prospettici, così come i personaggi “deformati” di Gaspare Traversi, siano in realtà espressione di uno spazio che ha ben poco della concezione classicista dell’opera vista attraverso la finestra albertiana, per cui l’occhio restava alla costruzione fissa e monoculare definita dalle teorie sulla prospettiva.

 

Dalla Napoli di Antonio Joli alle vedute modernissime di Didier Barra, dalle marine di Salvator Rosa ai capricci di Leonardo Coccorante, attraverso un confronto serrato con tutti quegli artisti coevi che operarono prevalentemente in altre città, passando anche per i “mostri sacri”, fra cui il Canaletto, l’autrice prova a districare quel mistero che sin da subito le era apparso osservando i dipinti napoletani.

 

La scoperta di una perspectiva realis partenopea contrapposta a quella artificialis di area toscana, spiega, pur non esaurendone il senso, quelle composizioni «raggiate e multi direzionali» che descrivono la Napoli delle “menti illuminate”, di Gaetano Filangieri, Antonio Genovesi e altri. Essi, a differenza di quanto accadde nella Roma papale, tanto “oppressa” dai suoi monumenti nella pittura (così come dal peso dei dogmi e della verità scolastica) o nella decadente Venezia, seppero rielaborare criticamente e in maniera originale il pensiero rivoluzionario di matrice francese.

 

Tra i motivi più affascinanti di questa ricerca c’è, infatti, la comparazione delle vedute con il fervido laboratorio d’idee che ebbe centro a Napoli e che coinvolse intellettuali, giuristi, artisti e persino regnanti a sostegno di una nuova cultura laica e più tollerante, la stessa che liberò la pittura dagli «orpelli del barocco e dalle fustigazioni dei santi».

 

Non solo: in un continuo rimando al presente, che è il tempo della ricerca, in cui i toni del racconto perdono rigore scientifico per divenire più intimistici e a tratti ironici, i fili del passato si intrecciano con i simboli del contemporaneo, proiettando il lettore da una dimensione all’altra con naturalezza e semplicità, talvolta guidandolo alla comprensione di una cultura di cui oggi si dimenticano tanti aspetti e che è la stessa di appartenenza dell’autrice, con un senso di amore profondo e riconoscenza verso di essa.

 

Il libro di Dragoni, è, dunque, un’opera originale che coglie nella sua interdisciplinarietà il senso di continuazione e al tempo stesso di negazione della nostra civiltà rispetto a quella illuministica, attraverso i motivi formali osservati nella pittura del Settecento come superamento della spettacolarizzazione barocca tendente all’infinito, a favore di una razionalità “non astratta” e che si occupa di problematiche terrene.

 

La veduta napoletana sembra, così, il risultato di un’implosione, più che di un’esplosione: è, in effetti, l’inverso della prospettiva classica che trova, adesso, il punto di fuga all’interno di se stessa, secondo una concezione immanente, conoscitiva della realtà nella sua immagine veritiera. Un’immagine che, però, risulta imprecisa, “obliqua”, perché considera l’oggetto attraverso una visione relazionistica (e non relativistica, come precisa Dragoni) del mondo, rivelandoci la natura “quadridimensionale” di una Napoli da sempre cosmopolita e aggregante.

 

Piera Scognamiglio

 

 



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