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29/03/24

Dove va il Partito Democratico?


Categoria: EDITORIALI E COMMENTI
Pubblicato Venerdì, 17 Marzo 2017 17:16
  • Silvio Pergameno

Qualche giorno fa, ai primi di marzo, il Direttore Rippa, mi ha telefonato chiedendomi un intervento ulteriore (Quaderni Radicali ha dedicato negli anni quattro numeri sul tema) per Agenzia Radicale sull’andamento della vicenda del PD in queste settimane e in questi giorni, un corso che ovviamente ci interessa, se non altro per il fatto che il mercato politico italiano si è fin troppo avvizzito negli ultimi tempi, mentre per i corridoi del palazzetto del Nazareno passeggiano diversi illustri personaggi, che dovrebbero avere molte cose da dire, anche se per lo più parlano d’altro.           

 

Difficile l’incipit, ma forse è bene muovere da una constatazione che è sotto gli occhi di tutti: in questi ultimi  venti anni all’interno della vita politica nazionale è maturato un effetto devastante: il paese è rimasto privato in larga misura della sua classe politica e sulle soglie dello sbando. Le sentenze di Manipulite hanno mietuto ampiamente nel campo della politica, ma soprattutto è mancata nella classe politica la consapevolezza di quanto stava accadendo e anzi i politici si son dati a spingere in discesa, sia nelle sfide degli uni contro gli altri, sia nell’opera di distruzione della garanzia politica, un’opera nella quale proprio PDS e DS sono stati in prima fila…

 

Le sentenze: è chiaro che non si tratta di contestare le singole sentenze, ma di evidenziare e discutere l’effetto metagiuridico che complessivamente si è determinato e che rende urgente ristabilire proprio la garanzia politica; che non si tratta di polemizzare con il magistrato militante ma di rendersi conto della necessità di evitare che il giudice rischi di perdere la terzietà e insieme di convincersi del fatto che il PM non è un magistrato, ma una parte, dato che promuove il giudizio, una parte che Alfredo Rocco definì imparziale, tanto per salvare la faccia.

 

Ad avviso di chi scrive, quello della distruzione di gran parte del patrimonio politico nazionale è il dato più preoccupante della situazione attuale, anche se non sarebbe nemmeno complicato avviarne una soluzione, ripristinando  il testo originario degli artt. 67 e 68 della costituzione, come li avevano dettati i padri costituenti. Certo non si tratta certo di assolvere la dirigenza politica (ci mancherebbe!) della prima Repubblica, colpevole di non aver cercato la soluzione politica, e per quanto riguarda la sinistra, cattolica e comunista, di essersi avviata per una  strada che si è rivelata un vicolo cieco. E in mancanza di dibattito politico, di esame di coscienza, litiga.

 

La tentazione certo era forte, alla nascita dell’Ulivo, perché dietro c’era il sottofondo, molto teorizzato da Togliatti del famoso  “dialogo con i cattolici” un progetto politico del quale spesso si è tornati su “QR”  e su “AR”, quando il segretario del PCI nel secondo dopoguerra doveva configurare un percorso in Italia per il suo partito, fedele a Mosca, ma operante in Italia, pienamente inserita nel Piano Marshall e nel Patto Atllantico, nella ricostruzione europea e nello schieramento di difesa. Già, fedele a Mosca. Perché questa era stata la conseguenza della svolta di Stalin, quando nella seconda metà degli anni venti del secolo scorso, aveva messo da parte la prospettiva della rivoluzione mondiale optando per la costruzione del comunismo nel suo solo paese, che nei rapporti fra i vari partiti comunisti significava il predominio del PCUS, la sostituzione dell’Internazionale con il Komintern e poi il Kominform

 

E Togliatti ideò lo schema di una democrazia popolare, che rappresentava un approfondimento della prassi dei fronti popolari, coalizioni politiche e di governo sperimentata in Francia nel 1936 con il governo di Léon Blum (PCF, SFIO e vari minori di sinistra) e fondata su un blocco storico, su una convergenza in grado di coinvolgere tutte le forze popolari, comuniste, socialiste e cattoliche, in funzione anticapitalistica e antiborghese. Era un modello di democrazia contrapposto a quello della tradizione liberale, fondato sulla divisione dei poteri e su uno schema tradizionalmente bipartitico di alternanza di un partito che governa e di un’opposizione che controlla e che aspira alla successione (whig e tory e poi tory e labour in Inghilterra, democratici e repubblicani negli Stati Uniti).

 

Il rapporto fra democristiani e comunisti fu invece vissuto dalla Democrazia Cristiana in chiave di convenienza politica: estromettere il PCI dal governo nel 1947, ma ottenere un riferimento nella costituzione ai patti lateranensi per i rapporti fra stato e chiesa, mentre poi con il trascorrere del tempo il percorso si sfrangiava nei sessant’anni della quotidianità di uno stato sociale con compiti sempre più estesi e diffusi nelle amministrazioni locali, negli enti pubblici, nelle partecipazioni statali,… un lungo periodo nel corso del quale quello che era stato il sogno comunista di una società mondiale fondata sui principi dell’uguaglianza si diluiva con il passaggio dei giorni e degli anni, anche per effetto del miglioramento del tenore di vita che attenua la sensibilità per le differenze sociali.

 

Di particolare interesse la proposta berlingueriana del compromesso storico, spinta dalla vicenda del colpo di stato di Pinochet in Cile nel 1973, una proposta che offriva una difesa della democrazia nel nostro paese – al tempo minacciata da ripetute esplosioni i di terrorismo – sempre nella direzione del blocco delle forze popolari. Non fruttò l’ingresso del PCI nell’area governativa, ma solo la breve stagione della solidarietà nazionale con l’astensione del PCI al governo Andreotti del 1976 e la fiducia a quello del 1978: un compromesso tutt’altro che storico.

 

La fondazione del PD nel 2007 risente di questa tradizione e matura nel periodo confuso della vita politica italiana che vede nel momento dello sfascio del quadro politico della prima Repubblica un’ampia proliferazione di movimenti e gruppi e insieme la nascita di tentativi di riaggregazione, come – più specificamente - l’Ulivo e la Margherita.

 

E dell’Ulivo soprattutto, perché aveva avuto una genesi fornita di ampie motivazioni e perché ancora oggi viene rievocato e, si direbbe, suggerito come possibile via d’uscita. E proprio dal suo ideatore, Romano Prodi, sin dal 1995, come risposta alla crisi dei partiti. La Margherita invece ha svolto un ruolo piuttosto tattico.

 

Nel settembre del 1993 le amministrative erano andate bene per la sinistra (si votava per la prima volta con i sindaci capilista anche di una coalizione).  

 

La vittoria di Berlusconi nelle elezioni del 1994 non aveva determinato, comunque conseguenze analoghe per tutti: mentre la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano si polverizzavano, jl postcomunista Partito Democratico  della Sinistra registrava sicuramente una sconfitta, ma restava saldo nella sua struttura (a voler essere cattiivi: nomenklatura). Comunque alle elezioni Berlusconi (con il Polo delle libertà (Forza Italia, Lega Nord più Alleanza Nazionale, però solo per il centro sud) registrò un grosso successo con quasi il 43% dei suffragi (366 deputati e 156 senatori), il PDS (Occhetto)con l’Alleanza dei progressisti (vasto assortimento con Willer Bordon, Pierre Carniti, Carlo Ripa di Meana, Leoluca Orlando, Fausto Bertinotti) ottennero oltre il 34% e Mario Segni (Patto per il Rinnovamento Nazionale) quasi il 16%.

 

Un panorama che si descrive da solo nelle sue approssimazioni, più accentuate a sinistra. E fu proprio per questo che Romano Prodi, politico ampiamente strutturato, nel 1995 avviò l’Ulivo, al quale dette sin dall’inizio un’impronta ben fondata su tratti essenziali del panorama politico italiano. L’iniziativa fu infatti presentata come piano di centro-sinistra per il lancio unitario del riformismo italiano nelle sue componenti cattolico democratiche, liberaldemocratiche e socialdemocratico-socialiste, con un suo albero a fianco a fianco dell’altro albero, la Quercia di Occhetto per l’appunto), che alludeva chiaramente all’apertura di un discorso. Confluirono: Centocittà (Cacciari, Rutelli, Enzo Bianco, Ermete Realacci, Paolo Gentiloni), Italia dei Valori (Antonio Di Pietro), La Rete (Leoluca Orlando), Movimento per l’Ulivo (Marina Magistrelli, senatrice, segretaria del Movimento), Unione Democratica (Antonio Maccanico)…..

 

E nelle elezioni del 1996 il centro sinistra (PD, popolari, Comitati per l’Italia che vogliamo (cioè l’Ulivo), Rinnovamento italiano (cioè Dini e verdi) si prendeva la rivincita, avendo riportato l’1,3% dei voti in più (580.000 voti  in più)  del Polo delle libertà (Polo, Alleanza nazionale, CCD –Cdu). La Lega di Umberto Bossi ottenne il 10%. All’interno della coalizione l’Ulivo registrò 269.000 voti, dei quali circa 30.000 del Partito Sardo d’Azione, che era entrato nella lista dell’Ulivo. In sostanza, dal punto di vista che qui interessa, nel discorso entrano anche i postcomunisti.

 

L’Ulivo peraltro è fiorito, dopo alcuni tentativi a partire dal 1998, nel dicembre del 2001, facendo peraltro sbocciare … margherite, o meglio una sola Margherita, frutto comunque della sua linea politica, sotto la guida di Romano Prodi e frutto, comunque della sua linea politica, che attuò provvedimenti di riforma per ridurre il debito pubblico, attuare privatizzazioni… con orientamento europeista e raggiungendo accordi con i sindacati. Furono provvedimenti che faciliteranno l’ingresso dell’Italia nell’euro, proprio al tempo in cui Prodi sarà Presidente della Commissione Europea.

 

Quello Prodi è sicuramente un governante di livello, non occorre che sia io a dirlo. Ma il punto non era questo.

 

Il fatto era che evidentemente tutta questa manfrina a Bertinotti non gli andava giù; e Fausto piantò la grana, provocando come primo risultato una controversia interna con Cossutta, che invece voleva continuare a sostenere Prodi, controversia che venne risolta secondo i rigorosi canoni della sinistra “ideologica” (e quindi pura e dura, come diceva Marco), cioè con una bella scissione, da cui nacque il Partito dei Comunisti Italiani, mentre al centro nasceva l’Unione Democratica per la Repubblica (UDR) di Cossiga e Mastella (subito diventata UDEUR: Unione dei Democratici per l’Europa).

 

Il governo Prodi era infatti un governo di coalizione, reso necessario in una frantumazione progressiva del quadro politico (scissioni e riconciliazioni, litigi e ricomposizioni infatti avevano dato luogo – complice il Mattarellum, una legge elettorale proporzionalistica e coalizionistica (e che non è escluso si possa ritrovarci alle prossime elezioni) - a un molteplicità di piccole formazioni sempre sul piede di guerra, della quale si è cercato di dare un’idea, non una vera rappresentazione. Probabilmente impossibile e sicuramente inutile. Comunque nacque il Governo D’Alema, seguito poi nel corso della legislatura da un secondo Governo D’Alema e poi da un Governo Amato….

 

Prodi intanto dal 1999 (e fino al 2004) è presidente della Commissione Europea e alle elezioni del 2001 l’Ulivo si concentra su Francesco Rutelli, che mantiene la coalizione in atto con l’aggiunta dell’UDEUR, (Unione dei Democratici per l’Europa) che dal 1999 ha sostituito l’UDEUR sempre di Mastella (che poi diventa Alleanza popolare UDEUE e ancora più avanti Popolari per il sud), però è battuta da Berlusconi, che si assicura così un altro quinquennio…

 

Le elezioni del 2001 infatti sono vinte da Berlusconi, che sfiora il 50% e surclassa la sinistra, ferma a poco più del 35% e con Bertinotti che racimola un 5,3%.

 

 

E la sconfitta porta consiglio. Il Partito Popolare Italiano (dove sono presenti grossi calibri della ex DC (De Mita, Martinazzoli, Gerardo Bianco, Rosy Bindi, Andreatta, Mancino, Rosa Russo Iervolino con propensione a sinistra e Buttiglione, Marini, Colombo invece verso Berlusconi), Rinnovamento Italiano (Dini) e i Democratici (rappresentati da Arturo Parisi), che si erano presentati uniti alle elezioni sotto la bandiera dell’Ulivo si avviano a trasformarsi da comitato elettorale in partito.

 

Negli anni successivi però il progetto di una formazione unitaria tra Margherita e Ulivo, che aveva avuto inizio con l’avvio di una Federazio e subisce un arresto e provoca divisioni nella Margherita (Europee del 2004 e regionali del 2009. Con Rutelli contrario e Parisi favorevole, ma ha solo il 20%) e il progetto di una lista unitaria per il 2006 viene respinto. Reagisce allora Romano Prodi, che lancia la proposta di tenere le primarie per scegliere il candidato premier alle elezioni e viene indicato con il 74% dei voti di 4.300.000 votanti. E allora Rutelli rivede le sue posizioni e propone una lista unitaria per il 2006 e l’avvio della creazione di un partito democratico.

 

E le politiche del 2006 sono vinte dall’Unione (Ulivo, Rifondazione, RnP (radicali), PdCI, IdV, Verdi, UDEUR, SVP) e Prodi diviene Presidente del Consiglio. I due congressi del 2007 della Margherita e del PDS approvano mozioni unitarie a forti maggioranze e alla fondazione del partito si arriva nell’ottobre 2007, che viene completata nel febbraio 2008. Ma dopo venti mesi scoppia la vicenda delle imputazioni al Ministro della Giustizia Mastella e alla di lui consorte Sandra Lonardo, presidente del Consiglio Regionale della Campania, che costringono il Presidente Prodi a chiedere la fiducia, poi accordata dalla Camera, ma negata dal Senato, dove si sono verificate defezioni. Le Camere saranno sciolte nel febbraio del 2008 e le successive elezioni saranno vinte ancora una volta da Berlusconi.

           

Prima di affrontare la fase finale della vicenda del PD in questa XVII legislatura è opportuno trarre alcune conclusioni dalle vicende e dai fatti sinora narrati. Dal dialogo con i cattolici, al compromesso storico, alla Margherita e soprattutto all’Ulivo si trae quasi la sensazione di un’attrattiva fatale, di una sorta di destino o, se si vuole, di una sorta di condanna di due forze o meglio due tendenze politiche, divise da profonde diversità culturali, a cercare un sorta di unione fondata su premesse ideologiche invece di tentare, in vista di una politica sociale comune, un approccio pragmatico per trovare ipotesi di lavoro comuni e soluzioni possibili.

           

Tenendo conto dell’esistenza anche di posizioni inconciliabili, certo maggiori al tempo della guerra fredda in ragione del diverso schieramento rispetto ai due blocchi in cui il mondo si trovava diviso.

           

Ma riflettendo soprattutto sul fatto che dopo la crisi definitiva del mondo sovietico, che poi era l’indispensabile premessa del crollo del Muro di Berlino e la conseguente dissoluzione del blocco orientale, il Partito Comunista Italiano non aveva trovato la forza di affrontare una Bad Godesberg e di compiere una scelta autenticamente e convintamente riformista.

           

Questo seguendo una traiettoria. Ma a questa si deve affiancare l’analisi di un’altro percorso, quello per il quale dalle diverse ipotesi, dai diversi problemi, dai diversi orientamenti che sono il tessuto normale della vita democratica non è scaturito un confronto di opinioni, di idee, di proposte, ma si sono configurati solo scontri  in termini di potere e di conquista di posizioni di potere, di battaglie elettorali e quindi di leggi elettorali, che non potendo risolversi con l’eliminazione degli avversari ha portato alla frantumazione delle forze politiche e alla tendenza a salvaguardare per tutti i margini della sopravvivenza.

  

Ecco allora il degrado del dibattito politico e del livello delle classi dirigenti. Ecco la genesi di fondo dei movimenti di natura qualunquistica e populistica. Lo strumento del referendum è stato usato senza un supporto di informazione necessario e consultazioni su temi di rilievo non hanno avuto alcun esito perché decaduti per mancato raggiungimento del quorum; problemi di grande rilevanza per l’avvenire del paese, come l’integrazione europea o le sorti dell’euro o i problemi ambientali o i pesanti flussi di immigrazione giungono all’opinione pubblica in termini o sulla base di considerazioni superficiali invece di dibattere sui problemi veri (le nostre democrazie sono frutto di secoli di pensiero greco, romano e cristiano, dell’illuminismo e del romanticismo… laddove gli immigrati appartengono a culture diverse e talvolta arrivano con pretese di… insegnarci a campare.

 

L’Ulivo che Prodi ora ripropone (su Repubblica dello scorso 17 gennaio) con le stesse motivazioni originarie, rischia di capovolgersi nel contrario di un percorso di avanzamento per la formazione di un centro sinistra avanzato e competitivo…

           

L’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso viene presentato dalla stampa come una disfatta terribile e irreparabile, con il chiaro intento di accantonare per sempre il problema della governabilità, la cui soluzione dai tempi di Craxi non è mai riuscita a compiere passi avanti, laddove di tratta di una sconfitta che comunque ha rilevato che esiste un 40% del paese che avverte la necessità di riforme…la Francia le ha adottate dai tempi di De Gaulle, quasi mezzo secolo fa.

 

Un problema - sul quale è prima di tutto proprio nell’ambito della sinistra che esistono pregiudizi negativi, e che nell’ambito della destra trova ambienti che ne fanno uso in chiave antidemocratica - è stato affrontato, con la riforma sottoposta al referendum, in chiave non persuasiva e non sufficientemente condivisa nell’ambito della stessa sinistra.  Renzi è un politico animato da volontà di fare, ma la sua azione rischia di rivelarsi negativa, come si rivela nel ritorno, che ormai appare scontato, a ipotesi di leggi elettorali di natura proporzionalistica, vanificando tutti gli sforzi compiuti nei trent’anni passati per avanzare verso sistemi di ispirazione maggioritaria.

 

La preoccupazione per assicurare capacità rappresentativa ai meccanismi elettorali finisce così per assicurare rappresentanza non a grandi correnti di pensiero politico, ma ai fenomeni di stampo populistico che percorrono il mondo.

 

Dalla vicina Francia, intanto, per la prima volta giungono segnali forse positivi in una direzione nuova, con la comparsa sul palcoscenico politico di un personaggio con idee nuove, anche se non privo di contraddizioni e di posizioni variabili in ragione delle diverse situazioni politiche da affrontare. Emmanuel Macron proviene dal Parti Socialiste, è stato Segretario generale aggiunto all’Eliseo con Hollande e Ministro dell’Economia con Manuel Valls; lo scorso anno ha fondato il movimento “En Marche” e si è candidato per la Presidenza della Repubblica. Soprattutto è rilevante il fatto che nei sondaggi si sta rivelando come l’uomo capace di battere Marine Le Pen, che con il suo Front National di destra estrema turba i sonni dei francesi.

 

La novità è grossa nel panorama politico francese, in quanto lascia prevedere un ballottaggio nel quale gollisti e socialisti non sarebbero presenti.

 

E  Macron (nel libro “Révolution”, pubblicato lo scorso autunno) si presenta come un liberale di sinistra, che crede nel liberalismo come valore della sinistra o, comunque, né di destra né di sinistra e di convinzioni europeiste. Non è poco come novità per un paese come la Francia, nella quale l’idea nazione, molto confusa con quella dello stato, ha marcato pesanti battute d’arresto nel processo di integrazione europea. Sono fatti sui quali il Partito Democratico, penso, farebbe bene a dedicare qualche riflessione.

 

Come farebbe bene a riflettere sulla figura di Alexander Van der Bellen, esponente dei verdi diventato presidente della Repubblica austriaca o su Mark Rutte, conservatore liberale olandese che ha vinto le elezioni in Olanda, con un discorso in difesa dell’identità nazionale ma da posizioni nettamente europeiste, dimostrando cioè che non c’è una contrapposizione tra idea di Europa e idea di nazione…

 

 



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