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19/04/24

La semantica vintage dei promotori della rentrée di Conte


Categoria: POLITICA
Pubblicato Giovedì, 29 Agosto 2019 14:21
  • Luigi O. Rintallo

Mentre i pamphlet contro la deriva “ducesca” del leader leghista Salvini (vedi Il dittatore di Giampaolo Pansa, Rizzoli) si apprestano a finire sui polverosi banconi di qualche remainderGiuseppe Contepotrebbe essere confermato alla guida di un nuovo governo, in base agli accordi stretti nel giro di due settimane fra Movimento 5 StellePartito Democratico.

 

Può essere interessante soffermarsi sulla semantica delle dichiarazioni rilasciate dai principali promotori di questa soluzione politica. In particolare attirano l’attenzione i tre sintagmi usati da Nicola ZingarettiLuigi Di MaioBeppe Grillo nel giorno che ha portato alla concorde indicazione per Giuseppe Conte a successore di sé stesso in un dicastero che sostituisce la Lega con il PD (nonché il codazzo di Liberi e ugualicon Piero Grasso Laura Boldrini).

 

Cominciamo dal primo, il segretario del PDche, nell’arco di pochi giorni, è ripetutamente arretrato nelle condizioni che poneva durante la trattativa preliminare coi 5Stelle. Quasi prossimo a incarnare la figura di un martire votato al sacrificio, Zingaretti è passato dal non temere l’anticipo delle elezioni, fiducioso di riuscire a coagulare il ragguardevole campionario degli avversari al sovranismo populista e - contemporaneamente – ridare orgoglio e compattezza alla sinistra, alla presa d’atto della conferma alla guida di un futuro secondo governo di Conte, che si limiterebbe a spostare il fazzoletto dal taschino di destra a quello di sinistra.

 

Nell’estremo tentativo di non affogare nel gorgo della completa consegna alla linea imposta da Matteo Renzi, si appiglia all’espressione “governo di svolta”, che evoca immancabilmente gli stessi enunciati dei leader correntizi dell’antica DC come Donat Cattin Marcora.

 

“Non c’è alcun testimone da passare”, ribadisce Zingaretti e ha ragione, ma semplicemente perché il corridore – Giuseppe Conte – è sempre lo stesso. Meglio non interrogarsi su come l’avvocato professore riuscirà a fronteggiare il dissidio interiore fra le sue variabili identità e su come il testa-coda sui contenuti del programma di governo potrà risultare ben più devastante per il Paese, che non il testa-coda delle alleanze politiche sottoscritte.

 

Di Maio, sulla scorta del cono di luce girato da Grillo in direzione del candidato premier, ha enfatizzato – all’uscita dal Quirinale – l’endorsement del presidente americano Trump per Giuseppe Conte. Non sappiamo se l’ha fatto con malizia, per gettarlo sul volto dei nuovi alleati. Tuttavia, è significativo che il giovane leader pentastellato abbia sostenuto come gli prema ridare “prestigio internazionale” all’Italia proprio attraverso la figura di Conte.

 

E qui sembra riaffiorare un antico vizio della politica italiana, quell’esterofilia che ci fa immaginare i leader degli altri Paesi preoccupati del nostro benessere e non piuttosto del loro. Per non dire poi che l’enfasi sui riconoscimenti internazionali finisce per avvalorare una ricorrente convinzione, circa lo stato di tutela al quale sarebbe sottoposta l’Italia: spesso auspicato da quanti vi scorgono un modo per domare la sua congenita ingovernabilità, ma che in realtà sono più preoccupati di preservare attraverso di esso le condizioni date della loro predominanza sulla società italiana.

 

Infine, a Beppe Grillo si deve la riproposizione di un toposmolto frequentato in passato: il “governo dei competenti”. Variante del “governo degli onesti”, promosso da alcuni giornali-partito all’indomani del sequestro del magistrato D’Urso, allo scopo di trasformare l’Italia in una “democrazia vigilata” per dare campo libero a potentati e corporazioni.

 

Quasi quarant’anni fa, Pannella utilizzò la sintetica formula “P-2; P-38 e P- Scalfari” per denunciarne la trama. Oggi Grillo auspica che dai ministeri siano estromessi i rappresentanti politici, a ulteriore conferma dell’anti-politica che ha contraddistinto la lunga transizione italiana cominciata con la fine della prima Repubblica.

 

Il rischio è che il suo ultimo lascito sia un altro decisivo passo che ci allontana dalle prospettive apertesi grazie alla centralità data dal movimento radicale all’autonomia e responsabilità degli individui.

 

 



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