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20/04/24

Mauro Mellini, per ricordare


Categoria: POLITICA
Pubblicato Domenica, 05 Luglio 2020 18:04

Mauro Mellini, morto la scorsa notte all'ospedale Gemelli a Roma all'età di 93 anni, è stato sicuramente uno dei personaggi politici e culturali più significativi del movimento dei diritti civili. Avvocato e giurista, membro laico del Consiglio superiore della magistratura, è stato deputato del Partito Radicale nella VII, VIII, IX e X legislatura.

 

"Compagno d'armi di Marco Pannella, fu vicino al leader radicale nelle campagne più importanti sui diritti e sulle garanzie, a cominciare dalla battaglia sul divorzio e dalla difesa di Enzo Tortora…” - scrive la Repubblica.

 

Eppure il suo ricordo non significa solo dare la notizia della sua scomparsa, ma tentare di richiamare il senso del suo instancabile impegno di denuncia e di coraggio nell’assumere posizioni scomode in un mondo culturale, politico, giudiziario, informativo dove prevale la più miserabile cultura dell’omologazione alla retorica e l’asservimento al mainstream convenzionale che si presume essere comune e dominante e quindi capace di dare visibilità per non essere emarginati dal discorso pubblico.

 

Se la giustizia è stata fino all’ultimo il suo chiodo fisso per evidenziare le storture che si venivano determinando e che facevano torto al senso di giustizia giusta e necessaria per il cittadino, la sua provocatoria e brillante scrittura non mancava di essere l’interpretazione più accattivante del suo pensiero lucido e graffiante, che è stato tenuto vivo con le sue note quotidiane, autentiche stilettate al degradante contesto politico-giudiziario che ci troviamo davanti.

 

Agenzia Radicale ha ospitato alcuni di questi interventi. Abolendo la prescrizione vogliono rendere i processo eterni è uno di questi (clicca).

 

Nel nostro ricordo più vivo resta uno dei suoi libri che pubblicammo come Quaderni Radicali nel maggio del 1982 (proposto poi da noi a Pironti editore): Eminenza la “pentita” ha parlato: Storia di una “pentita” celebre e di un processo infame nella Roma di Pio IX.

 

Ecco come si presentava quel brioso, storicamente ineccepibile, ma anche frizzante e  umoristico libro,  che interpretava il tempo presente parafrasando le storie del passato… 

 


 

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“Centoventi anni dopo i fatti narrati nelle pagine che seguono, è stata ristabilita nel nostro paese l’impunità per chi denunzia i propri complici. È questo, in sostanza, il principio della «Legge sui pentiti».

 

Ristabilita è il termine esatto, anche se quanti hanno voluto questa legge, sono convinti che si tratti di una «invenzione» per la lotta contro il terrorismo.

 

In realtà accordare l’impunità ai delatori è strumento antico contro le congiure ed i congiurati, uno strumento che la moderna legislazione penale ha respinto come barbaro ed

incivile.

 

Presente nella legislazione di quasi tutti gli stati italiani prima dell'unificazione una norma del genere è rimasta in vigore fino al 1870 nello Stato Pontificio.

 

La cosiddetta legge sui «pentiti» poteva e può essere giudicata sulla base dell’esperienza, non soltanto su quella dei principi astratti.

 

Eppure se taluno ha ricordato le perplessità di Beccaria e lo sdegno di Carmignani contro questo residuo di medioevo, nessuno si è rifatto ai dati dell’esperienza, ai risultati, all’uso indegno che queste norme è stato fatto nel nostro paese in tempi lontani, ma non lontanissimi.

 

Il caso del processo Venanzi-Fausti può essere considerato esemplare. Esso vale più di tutte le polemiche teoriche, di tutte le discussioni filosofiche, morali e sociologiche che possano farsi e che sono state fatte su questa materia. Lo scandalo che allora esplose per l’inaudita e perfida ingiustizia che il regime pontificio consumò addirittura contro un suo fedele sostenitore, ebbe a protagonisti monsignori e poliziotti, giudici e ministri; coinvolse lo stesso Pontefice. Ma quando i liberali poterono denunziare all'opinione pubblica quella vergogna, pubblicando gli atti del processo, non furono tanto la sentenza, l'istruttoria, i falsi documenti a dare un nome alla vicenda.

 

L’opuscolo con il quale il Comitato Nazionale Romano volle inchiodare la giustizia dei preti, ebbe un titolo «Ie rivelazioni impunitarie di Costanza Vaccari Diotallevi». Essersi valsa della delazione di quella sciagurata, pagata con l’impunità, fu un addebito dal quale la giustizia pontificia non trovò assoluzione.

 

Né l’utilizzazione della delazione di questa «pentita» avveniva in condizioni molto diverse da quelle in cui versa oggi il nostro paese, fatte ovviamente le debite distinzioni tra gli ideali del movimento nazionale risorgimentale e le torbide ed ottuse ideologie del terrorismo di oggi.

 

Ma terroristi erano, e non soltanto nei «riveli» di Costanza Diotallevi, i rivoluzionari di allora, 0 almeno alcuni di essi. Manin nel 1856 accusava Mazzini di essere un terrorista e Mazzini rispondeva accusando Manin di essere un terrorista pentito o magari, come oggi si direbbe «dissociato». Terroristi furono Monti e Tognetti, ricordati tuttavia come martiri, e terroristico fu l'attentato alla caserma Serristori. Per non parlare, ovviamente, di Felice Orsini e della sua famosissima bomba, esaltate poi negli inni garibaldini e repubblicani.

 

Il Governo Pontificio doveva fronteggiare una situazione drammatica. La sovversione al suo interno prese più volte forme violente. Né ad essa mancò l‘appoggio «straniero» cioè del resto d’Italia. Eppure nessuno dubitò che l'uso di leggi, come quella dell’impunità per i delatori, fosse espressione di barbarie tale da squalificare quel governo, più dei patiboli eretti a Via dei Cerchi per Lucatelli, per Monti e per Tognetti.

 

E dietro gli «impunitari» e l'uso spreggiudicato delle loro rivelazioni, sta l'ombra delle mene di potere, l’ulteriore vergogna dei processi «pilotati» per colpire alle spalle uomini di diversa fazione, per coinvolgere personaggi altrimenti inattaccabili.

 

Non si tratta quindi, come si è detto, di una invenzione quella che oggi è detta la «legge sui pentiti». Invenzione semmai è quella del termine. Sotto il governo del Papa si chiamavano «impunitari» o, più semplicemente «impuniti», parola che è rimasta nel linguaggio della gente di Roma come sinonimo di impudente. Piuttosto si dovrebbe parlare di scoperta, o meglio di «riscoperta» di questa legge. C'è dunque una continuità non solo nel cammino della civiltà, ma anche nelle tendenze meno nobili e regressive di un paese come il nostro, con una classe dirigente che, del resto, non disdegna e non rinnega un passato nel quale il potere temporale e la sua difesa non sono elemento secondario.

 

Questo scritto, con tutto ciò, non vuole essere mero strumento della polemica di oggi, ma evocazione di fatti e di passioni antiche, che tuttavia a noi possono e debbono fornire elemento di riflessione per meglio comprendere e per meglio affrontare il presente e l’avvenire".

 

(premessa a Eminenza la “pentita” ha parlato di Mauro Mellini - Maggio 1982)

 

 



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