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01/05/24

Un tenero 'loser' a Greenwich Village: 'A proposito di Davis'


Categoria: CINEMA
Pubblicato Martedì, 25 Febbraio 2014 12:05

Siamo stati bombardati in TV da spot e trailers di questo film, presentatoci come un capolavoro. Uno va al cinema abbastanza prevenuto, predisposto a darne una critica negativa. Invece esso ti cattura e, senza essere così potente da 'costringerti' a definirlo un capolavoro, non c'è dubbio che meriti un giudizio molto elogiativo.

 

Perché? Perché 'A proposito di Davis', dei fratelli Coen, è girato (e montato) egregiamente ed è pieno di umanità. Descrive la vita grama del protagonista con capacità evocativa e finezza introspettiva, con uno sguardo ad un tempo affettuoso e distaccato, impermeabile al patetismo ma in grado di commuovere.

 

L'ambientazione è in qualche misura analoga a quello di Sugar man, ossia il sottobosco musicale folk statunitense degli anni Sessanta, ma si potrebbe anche più appropriatamente scomodare Stop a Greenwich Village, un vecchio film di Paul Mazurski, del 1976, collocato negli anni Cinquanta in uno stesso contesto storico e situazionale: un aspirante attore che si trasferisce nel quartiere più vitale per chi cerca di entrare in un mondo dello spettacolo ricco di nuovi impulsi, il suo legame con una giovane che rimane incinta e deve abortire, il finale aperto a una possibilità di riuscita sociale.

 

Siamo qui per la precisione nel 1961. Llewyn Davis (Oscar Isaac, attore di origine guatemalteca già distintosi per esempio in Agorà di Alejandro Amenabar) canta al Greenwich Village, in piccoli locali. A differenza del Sixto Rodriguez di Sugar Man egli non riceve attestati di stima sulle sue qualità, non si avvicina ad avere contratti importanti e riconoscimenti pubblici, in patria né tantomeno all'estero.

 

Llewyn ha una bella voce e il sound che fuoriesce dalla sua chitarra non è molto diverso da quello di altri celebrati folk-singer. Ma non ha soldi, non vende, e soprattutto ha un carattere fragile, arrendevole, ingenuo. E' un perdente, un antieroe anche un po' sfortunato e goffo, gli ostacoli della quotidianità sembrano insuperabili.

 

Efficacissime alcune scene: quando Jean, una ragazza piuttosto facile con la quale ha avuto una storia, lo tratta a pesci in faccia ritenendo probabile che sia lui il padre del bimbo che porta in grembo (e nella v.o. l'aggressività della ragazza suona slang bisticciata e scattosa, perfetta); in un'occasione in cui Llewyn entra in contatto con un impresario influente, alla domanda di questi “ma tu conosci l'armonia?”, senza titubanze, per una forma di sincerità con se stesso, o forse di autolesionismo, risponde semplicemente “no” chiudendosi sul nascere qualunque prospettiva di progredire nella carriera.

 

E un altro momento significativo è quando Llewyn – invitato a cena da un amico sociologo ebreo e da sua moglie che gli mostrano affetto e gli danno ospitalità (è loro il gatto siamese alla cui cura Davis è costretto a dedicarsi per tutta la parte iniziale del film, quale espediente narrativo quantomai azzeccato per introdurre il ritratto del protagonista) – ha un soprassalto di orgoglio, di rabbia: viene invitato a suonare un pezzo, lui inizia poi si accorge che non può andare avanti, non può regalare in un'occasione banalmente mondana e in presenza anche di sconosciuti (gli amici della coppia degli ospiti) ciò che è parte fondamentale della sua vita, del suo mestiere, ciò che gli procura o gli dovrebbe procurare la sussistenza, almeno: Llewyn smette di cantare, insulta tutti i presenti quasi gli avessero teso una trappola, e se ne va lasciando i convitati attoniti.

 

Attenzione, questa è una ripresa chiave del film e della sua indagine psicologica: Llewyn reagisce con sorprendente virulenza e disvelando senza freni la propria sofferenza giusto con persone tra le poche che gli mostrano affetto e gli riservano protezione (e che nonostante l'accaduto torneranno a aiutarlo materialmente). Tutta la scrittura serve a costruire progressivamente, aggiungendo particolare su particolare, il ritratto umano di questo loser.

 

Ci si potrebbe chiedere se una qualche maggiore fortuna, un qualche destino benevolo lo abbia mai sfiorato o mai lo sfiorerà, come accaduto a un certo numero di altri cantanti che si muovevano nello stesso ambiente newyorkese, in quei difficili anni americani che ci suscitano curiosità e nostalgia.

 

Si direbbe di no, llewyn non si è mai avvicinato al successo professionale, per le sue ineliminabili insicurezze e sostanziale inettitudine più che per mancanza di talento. Il film è – ma si direbbe in modo piuttosto vago – ispirato alla storia di Dave van Ronk (1936-2002), cantautore statunitense amico di Dylan e arrangiatore del celeberrimo traditional cantato da Eric Burdon degli Animals, The House of the Rising Sun. Ottima, prevedibilmente, la colonna sonora.

 

Giovanni A. Cecconi



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