di Fabio Viglione
L’emergenza coronavirus ha stravolto le celebrazioni Pasquali, con inevitabile ricaduta anche sui momenti liturgici più attesi dalla Comunità Cristiana. Tra questi, certamente la storica via Crucis del Venerdì Santo, tradizionalmente celebrata al Colosseo, luogo simbolo della storia millenaria della cristianità.
Ma quest’anno, dopo oltre cinquant’anni, la funzione non ha luogo all’Anfiteatro Flavio ma in una deserta e suggestiva Piazza San Pietro. Le meditazioni che accompagnano la celebrazione provengono da una Casa di Reclusione. Accogliendo l’invito di Papa Francesco, i quattordici contributi di meditazione sono stati offerti attingendo da esperienze di vita con un unico filo conduttore: il drammatico vissuto del carcere.
Detenuti e loro familiari, un magistrato di sorveglianza, un agente di polizia penitenziaria e operatori impegnati quotidianamente ed a vario titolo nelle strutture di reclusione. Il carcere, da luogo periferico ed invisibile a centro gravitazionale delle meditazioni e delle riflessioni in un giorno così denso di significato per la tradizione cristiana.
Un giorno che invita alla riflessione non solo i credenti. Si è scelto di mettere al centro dell’attenzione, in diretta televisiva mondiale, il vissuto di un luogo di dimenticati, chiamato a fare i conti con la natura e l’essenza stessa dell’umanità. Una umanità multiforme, che ha tante facce, come tante sono le storie di sofferenza che legano con un filo invisibile chi è dentro con chi è fuori, oltre il cancello. Tutte le quattordici esperienze hanno offerto diversi angoli visuali di una umanità che rivendica la centralità di ogni uomo.
È il punto di osservazione che muta ma che sempre richiama ad una solidarietà autentica come grande patrimonio da scoprire. Nell’emarginazione e nella periferia, scarsamente illuminata dall’attenzione e dalla condivisione della sofferenza. E’ stato un grande insegnamento sul piano del completo rovesciamento delle priorità sulle quali dettare il ritmo dell’attenzione, nelle riflessioni individuali e collettive. Carcere come luogo simbolico ma al tempo stesso profondamente vivo della condizione umana, del disagio, della sofferenza.
E, purtroppo, dell’indifferenza. Della indifferenza con la quale, soprattutto in ambito politico e nel mondo dell’informazione, si continua a trattare la condizione dei detenuti, angosciati, nella più recente e drammatica attualità, dal rischio contagio in strutture sovraffollate. E quando le condizioni di vita non rispondono ad un modello ordinario che consenta servizi e spazi adeguati ai detenuti, mi sovvengono le parole di Cesare Beccaria che nel lontano 1763 affermava che “una pena accresciuta al di là del limite fissato dalle leggi è la pena giusta più un’altra pena…” .
Neanche questa fase emergenziale ha determinato il ricorso a provvedimenti adeguati di alleggerimento delle strutture, a tutto vantaggio di una piena vivibilità degli spazi per i detenuti e per tutto il personale preposto all’assistenza. In questo senso, le meditazioni di ieri, tratte dal vissuto di chi vive le angoscianti condizioni carcerarie sono state un pugno nello stomaco. Hanno messo in campo la drammatica umanità di persone che vivono tutto il peso della reclusione che li ha allontanati dal “mondo di fuori” e che li vede protagonisti di un quotidiano denso di angosce e tormenti. Un quotidiano fatto di elaborazione di errori e necessità di dare ancora senso ad una vita che scandisce i suoi tempi e procede più lentamente che nel “mondo di fuori”.
Ed è proprio nei momenti di tormento interiore che si è data voce alla coscienza, alla voglia di cambiamento, di riscatto, alla speranza. Per molti di loro, condizione vissuta nel messaggio salvifico della Redenzione. Le riflessioni di ieri hanno riguardato non solo testimonianze di detenuti, non solo il dolore del “mondo di dentro”.
Anche singoli contributi di familiari, di volontari, di operatori penitenziari. Le meditazioni hanno avuto l’effetto di aprire le porte delle carceri e far risuonare, anche attraverso le immagini suggestive della vuota Piazza San Pietro, parole di dolore e di speranza per accorciare le distanze con il “mondo di fuori”. Due mondi divisi da un cancello che non possono concepirsi come spazi di umanità distante e differenziata, che non possono non concepirsi come un unico spazio in cui la vita non perde il suo immenso valore.
Parlare di detenuti significa anche parlare delle loro famiglie, angosciate dall’assenza e chiamate a vivere un cammino di privazione e di dolore. Significa parlare di quanti sono chiamati ad operare all’interno delle strutture per tenere in vita la speranza di una esistenza costretta a fare i conti con una condizione di disagio e privazione, per scorgere frammenti rarefatti di chiarore. In un “mondo nascosto”, porre al centro della riflessione la condizione del detenuto significa rimarcare il rispetto per la inviolabile dignità che spetta a tutti ed a ciascuno. Tutti, anche da condannati, chiamati a vivere la condizione di figli di una stessa umanità.
Le esperienze raccontate nelle profonde meditazioni hanno posto in evidenza la necessità di non perdere mai di vista l’umanizzazione della pena e la tutela dei valori connaturati all’essenza stessa della vita. Quei valori che possono aiutare ciascuno a rialzarsi anche dopo la più rovinosa delle cadute. Quei valori che vanno stimolati ricorrendo sempre ad un approccio che non faccia della punizione un momento meramente vendicativo. Che non trasformi il periodo di detenzione in sofferenza fine a se stessa ma sappia dare un senso alla funzione risocializzante della pena.
Una funzione che si riflette nella capacità di elaborare la sofferenza della privazione. Prestare ascolto a quei pensieri ed a quel dolore è un dovere di tutti, è un dovere del “mondo di fuori” e di chi esercitando funzioni di indirizzo politico è chiamato a farsi carico della responsabilità di concepire i luoghi di detenzione come spazi di rinascita e di stimolo per una proficua risocializzazione.
Nel far ciò, naturalmente, non ricorrendo ad una facile demagogia che punta a stimolare un senso di paura e di distacco prevenuto nei confronti del mondo delle carceri. Interessarsi dei diritti degli ultimi non significa attentare alla sicurezza sociale. Non significa esaltare modelli non virtuosi. Significa però non concepire le strutture di reclusione come discarica sociale della quale parlare il meno possibile ma come luogo in cui la vita continua nel rispetto dei valori più autentici che rappresentano la vera carta di identità di un Paese civile.
All’ultima Stazione, nella meditazione proposta da un agente penitenziario, una frase ha rivelato tutta la sua profondità nella semplicità più autentica. Parlando della possibilità per il detenuto di raggiungere gradi di consapevolezza e positiva elaborazione dell’errore, ha responsabilizzato la propria funzione evidenziando come in questo percorso “il risultato dipende anche da me. Non posso limitarmi ad aprire e chiudere una cella”.
La forza di questa presa di coscienza si estende a tutto il “mondo di fuori” chiamato a vestire i panni dell’agente penitenziario che non vuole vivere il proprio ruolo limitandosi ad aprire e chiudere la cella. Ed in questo senso, la riflessione chiama in causa tutti noi nel pensare a questo “mondo nascosto” come un mondo vivo e sofferente che merita massima attenzione rappresentando l’altra metà del cielo di una stessa umanità. Quella di ieri sera è stata una pagina di alto significato e valore civile unitamente agli aspetti emersi di profonda spiritualità, apprezzabili, a mio avviso, per la forza del messaggio, anche da chi non è credente.
Davvero lodevole la sensibilità dimostrata da Papa Francesco che ha saputo interpretare e mettere all’attenzione del mondo la sofferenza e la profonda umanità che alberga in luoghi dimenticati. Assenti nell’agenda politica, relegati alla marginalità dal mondo dell’informazione. Ancora una volta Papa Bergoglio ha dato dimostrazione di non poter prescindere in un momento così importante e solenne, nel ricordo della passione di Cristo e nella attualizzazione del patimento dell’intera popolazione mondiale a causa del Covid 19,dalla attribuzione di una centralità di riflessione e di ascolto proprio partendo dalla sofferenza di chi vive l’emarginazione ed il distacco.
Una posizione davvero ammirevole che mi auguro faccia da stimolo ad un cambio di rotta sulle prospettive di intervento da parte di chi ha le responsabilità politiche per mettere in agenda ed affrontare le drammatiche condizioni di quel “mondo nascosto”.