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26/04/24

Perché i referendum sulla Giustizia sono la linea di demarcazione tra restaurazione consociativa e Stato di diritto


Categoria: EDITORIALI E COMMENTI
Pubblicato Martedì, 16 Novembre 2021 18:33
  • Giuseppe Rippa

1. La crisi politico-istituzionale italiana ha radici antiche. È parte della crisi dell’Europa e dell’Occidente, che si consuma nell’assenza da decenni di un nuovo ordine mondiale, ma ha una sua specificità che merita di essere interpretata in modo più diretto e preciso. 

 

La radice antica di questo stato di cose - lo abbiamo scritto a più riprese su Quaderni Radicali e Agenzia Radicale -  è riportabile a quello che può essere descritto come il ruolo che il Paese ha avuto nel dopoguerra nella logica di quello che fu chiamato il “bipolarismo coatto”. La spartizione del mondo tra le due potenze di allora, gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica, portò il Bel Paese ad esser frontiera tra i due blocchi e terreno di scambio da cui maturarono il processo politico istituzionale e il ruolo dei partiti (degenerato poi in quella partitocrazia occupatrice delle istituzioni) che stabilizzò il carattere consociativo della nostra realtà. 

 

Jalta sancì la divisione dell’Europa in blocchi contrapposti e l’Italia, con la presenza del maggior Partito comunista in occidente, divenne territorio di delimitazione tra i due blocchi che determinò, tra alti e bassi, l’esigenza di definire un equilibrio che fu realizzato con una vera e propria forma di consociativismo. Ciò a scapito dello Stato di diritto, affinché si realizzasse una pax sociale che nasceva con caratteri paternalistici. I gruppi dirigenti, sotto la tutela dei due partiti che rappresentavano le maggiori forze in campo alimentate dalla proiezione diretta delle due super potenze di allora, si formavano nello schema cooptativo che assicurava il continuismo e il controllo

 

Distribuzione del debito pubblico (coperto dallo schieramento occidentale), spartizione lottizzata che definiva la mappa di quella che poteva chiamarsi “democrazia fittizia”, controllo ideologizzato di ogni opposizione, ibernata nella certezza di non poter accedere al potere per la subalternità al blocco dell’Est. È dentro questo ombrello mondiale, dove si definiva il controllo (non senza accelerazioni critiche) della mappa politico-culturale di un Paese sostanzialmente subalterno, che si è formata l’Italia del dopoguerra. E questo ovviamente senza sottovalutare le energie individuali, la creatività, la qualità di eccellenze che però erano messe nella impossibilità di fare massa critica democratica e liberale da potersi trasformare in alternativa con i caratteri dell’alterità.

 

Si tratta di un abbozzo di analisi, che ovviamente ha pur sempre un carattere limitato anche se generale. È comunque in questo scenario che i processi di cambiamento, tecnologico, economico, culturale o sub-culturale devono essere interpretati. La crisi italiana si muove all’interno di fenomeni disgregativi gravi, evidenti, anche perché sono stati annullati tutti i tentativi di creare luoghi di evoluzione democratica, sono state ingessate le contraddizioni e non si è consentito di risolvere, in chiave autenticamente riformatrice, tutti i processi di cambiamento che la crisi del welfare conteneva. Nessuna possibilità di sperimentazioni e evoluzione in chiave concretamente liberale e democratica, proprio perché la classe di regime le riteneva rischiose per il mantenimento del proprio controllo eterodiretto. Fino all’attuale accelerazione di natura disgregativa.

 

2. Ripercorrere in questa sede tutte le vicende che hanno accompagnato l’iniziativa radicale di Marco Pannella, espressa nel dettaglio dalla strategia riformatrice referendaria che conteneva, nell’alveo della Costituzione, tutti i caratteri di riforma necessaria e urgente, diventa superfluo e ripetitivo. Eppure è utile sottolineare alcuni aspetti strutturali della mancanza di legalità e di rispetto delle regole e del diritto a cui si è ricorso, finendo per bruciare tutti gli elementi innovatori e democratici sino ad arrivare alla rappresentazione, che è sotto i nostri occhi, di presunti soggetti del cambiamento che non sono altro che l’estrema proiezione della perversione antidemocratica.

 

Quali possono essere i capisaldi in cui si è potuta mantenere ingessata la vicenda italiana? Vediamo per sommi capi. Viene subito in mente il processo formativo dell’agenda politica. Cosa si deve intendere per agenda politica? In primo luogo chi controlla le scelte? È vero che il processo di frantumazione che oggi viviamo è tale da rendere sempre più complicata la percezione delle modalità con cui si realizzano le scelte, ma è indubbio che, dopo la lunga stagione del monopolio partitocratico, giunto oggi alla sua conclusione (con la paradossale dinamica che vede la società, le istituzioni, esprimere una riformulazione dei vizi partitocratici come la burocratizzazione e la presenza di oligarchie al vertice della gestione, ma paradossalmente senza la pur viziata razionalizzazione dei partiti), si assiste al definitivo deflagrare dei luoghi dove la democrazia dovrebbe realizzarsi (si pensi al Parlamento oggi configurato come un ambito inutile e superfluo).

 

Ma si tratta di fenomeni che nascono proprio nella lunga, devastante azione di annullamento della dialettica democratica, dello Stato di diritto. Per cui abbiamo l’incredibile situazione in cui nella formulazione della restituzione ai cittadini del ruolo di soggetto decidente ci ritroviamo con la più inquietante logica della totale assenza di capacità di intervento degli stessi sui processi economici, politici, culturali. Alla logica elitaria della omertà partitocratica si è sostituita, nella più lineare continuità, un attacco alle élite che serve a creare una cortina fumogena di invisibilità alle élite nascoste, molto spesso di natura finanziaria, che completano il loro disegno di aggressione alle soggettività politiche e alle istituzioni democratiche. 

 

Ovviamente il controllo delle risorse finanziarie è da considerare una “risorsa” essenziale per il potere. Essa ha consentito il controllo delle organizzazioni (partiti e movimenti, associazioni pubbliche e occulte, poteri economici e finanziari di indirizzo) ... 

 

3. Qui entra in campo la risorsa più micidiale di cui dispone il potere descritto: la comunicazione. Certo, così come già descritto, il controllo della comunicazione nasce all’interno del tragico disegno antiliberale e antidemocratico che ha modellato il Paese. L’abbattimento delle deontologie professionali è sicuramente l’impianto di fondo di una classe dirigente del recente passato che non solo si è autodistrutta, ma ha preparato le basi dell’impasse e della crisi del Paese.

 

Nel libro l’altro Radicale: essere liberali senza aggettivi, realizzato con Luigi O. Rintallo ho provato a descrivere il contesto in cui questo fenomeno prende forma: “... Due sembrano essere gli ingredienti di questo quadro. Uno prende forma, anche nel contesto delle nuove tecnologie e degli strumenti digitali che influenzano le informazioni e quindi la vita delle persone, degli Stati e della politica, con il suo portato di un “progresso” pericolosamente inquinato dalla micidiale mescolanza fra l’avidità degli speculatori digital-finanziari e le tardive propaggini di una contro-cultura di fatto svincolata da un approccio pragmatico al reale. 

 

L’altro è, più specificatamente per il nostro Paese, legato alla debole conoscenza, che si trasforma in ignoranza, di cui gli Italiani sono vittime. Per quest’ultima le ragioni sono molteplici, ma si può dire che pochi sembrano essere consapevoli di quanto costa l’ignoranza a cui sono sottoposti e quale meccanismo di arretratezza procura tutto ciò.

 

I due fenomeni si intrecciano e si sovrappongono e sono il frutto velenoso di un modello paternalistico di democrazia fittizia, che si è sviluppato, nello schema post-Jalta del Belpaese, sia per la struttura storico-politica, sia per la diffidenza internazionale post-fascista. Nel DNA italiano è diffusa, per il modello di welfare che si era creato, l’assenza della cultura del “chi paga”, la mancanza di spirito critico – inteso come cultura laica, empirica della responsabilità , la indisponibilità all’azione collettiva (che ha preso poi il ritmo diffuso in non pochi casi dell’individualismo amorale) la cui conseguenza è la ridotta attitudine a tentare di risolvere i problemi”. 

 

Formare pensiero critico, approccio empirico alle cose, non certo disgiunto dai valori, sembra essere una meta irraggiungibile. Una società che ignora, che è stata abituata al ribellismo infruttuoso ed esaustivo, che non ha capacità di orientarsi nei contesti, che non dispone di conoscenza per l’individuazione delle logiche di riferimento e di come incidere su di esse (emblematico in questo è la falsificazione delle stesse battaglie di disobbedienza civile, camuffate in eventi di distrazione di massa) non può che essere marginalizzata dalle sfide che la realtà che viviamo ci impone e stimolata a tentazioni qualunquistiche. 

 

In un sistema informativo declinato in un unico registro (con cinque network televisivi, anche di informazione, che raccontano un unico scenario, condito da contrapposizioni scenografiche ma tutte iscritte nella logica dello stesso treno che va in una sola direzione) la sfida diventa drammatica e il restringimento degli spazi di libertà sarà la tentazione di scellerati e approssimati uomini di governo.

 

4. Se questo è il background, lo sfondo della situazione, è facile intuire come la vicenda del covid abbia ulteriormente contribuito alla corrosione del rapporto tra istituzioni e cittadini, abbia ulteriormente messo in crisi la partecipazione. E se oggi i cascami di questo sistema decomposto si siano rifugiati dietro la figura di Mario Draghi, già presidente della BCE e unica personalità spendibile sul piano europeo e internazionale, è facile capire il senso di una raccapricciante guerriglia sotterranea che attraversa tutti i partiti, scheletri senza nervatura, che ritroviamo quotidianamente a gracchiare nella disperata illusione di sopravvivere allo tsumani generato dalla loro inquietante incapacità.

 

Nella società corporativizzata, che sintetizza il modello dei comportamenti della società delle conseguenze, assistiamo al sempre più sciagurato spettacolo della lotta tra i poteri e al conflitto tra quelli che sono tutt’altro che un potere ma ricoprono il ruolo essenziale nella definizione dei conflitti e quindi di super-partes nelle garanzie democratiche. Il ruolo della magistratura è fondamentale nell’impianto democratico: alla magistratura spetta, infatti, il compito di tutelare i più deboli dalle prevaricazioni dei criminali e dei poteri occulti, finanziari o malavitosi che siano. Garantire il corretto funzionamento del sistema giudiziario è pertanto una priorità democratica perché, laddove esso sia minato alle sue fondamenta da lotte di potere o rischi di deragliare dal binario costituzionale, sarebbe pregiudicato il nostro stesso ordinamento democratico.

 

La questione giustizia riassume in modo emblematico tutto il senso della crisi che il nostro Paese vive. Potremmo dire che è il fronte in cui, con maggiore evidenza, emerge tutto il senso dell’ambiguità della democrazia fittizia che ha realizzato una condizione di apparente diffuso benessere, dove si è avuta l’illusione di spazi di libertà e di crescita, ma dove è mancata clamorosamente quella cornice politica, culturale, di regole e di legalità che fanno una democrazia moderna. È così che la giustizia può essere definita la radiografia più evidente, ma anche la più deformata, degli strumenti di guida (consociativi e compromissori, concertativi e elitari) della direzione politica e di potere del Paese, con i caratteri profondi e pervasivi delle culture anti-risorgimentali, maggioritarie nel dopoguerra, che avevano (e continuano ad avere, a destra come a sinistra), un assetto squisitamente illiberale.

 

Al di là delle rappresentazioni ottimistiche la china discendente che l’Italia ha imboccato e dalla quale è sempre più difficile risalire … “non è solo questione della crisi che ha colpito l’intera economia mondiale … Stanno venendo al pettine molti nodi che abbiamo stretto in passato, vuoi sotto forma di mancate riforme (… riforma della Costituzione o della Magistratura, ma c’è da sbizzarrirsi entro un vasto campionario), vuoi sotto forma di grandi scelte politiche sbagliate – dalle privatizzazioni (autentiche svendite fatte sotto costo da governi compiacenti ad alcuni privati …) alla costruzione di un sistema di welfare organicamente fondato sul debito pubblico … (Pensare l’Italia  di Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone – Einaudi editore)

 

 

Dunque la questione giustizia è divenuta vera e propria questione civile, che sempre più si è allontanata dalla vita reale per caratterizzarsi in questione morale, anzi decisamente moralistica…

 

Ma qual è una delle tesi che si sente come la più diffusa oggi? 

 

“Forse più che di guerra si può parlare di guerriglia, ovvero di conflitto asimmetrico, vista la degradante e insidiosa bassezza degli «ordigni» utilizzati: intercettazioni, dichiarazioni in aperto contrasto con la cosiddetta «terzietà del giudice» rilasciate sui giornali, sistematica violazione della privacy (con gli spaventosi costi che questa, tra l'altro comporta...), Csm e Corte Costituzionale che anziché limitarsi alla «nomofilachia», ovvero alla difesa delle leggi e alla loro osservanza, svolgono de facto il ruolo di terza e quarta camera dello Stato, spostando giorno dopo giorno il confine delle proprie competenze, in verità tassativamente indicato da leggi e Costituzione”…

 


 

5. È la stessa enciclopedia Treccani che ci descrive in modo chiaro, ad esempio, il ruolo e i compiti della magistratura. “… La magistratura italiana ha tradizionalmente presentato un assetto molto simile a quello delle altre magistrature di civil law dell'Europa continentale …”; ma il tentativo di integrare politicamente la magistratura nel periodo repubblicano comporta una serie di modificazioni istituzionali, accompagnate da mutamenti nei comportamenti dei principali attori presenti nell'arena giudiziaria. Ciò ha profondamente alterato il ruolo svolto dalla nostra magistratura ed il risultato di questo processo è stato che oggi la magistratura italiana presenta un assetto istituzionale peculiare, per buona parte diverso da quello che prevale negli altri Paesi a regime liberaldemocratico, in qualche modo collegato alla tendenza verso un assetto consensuale che ha caratterizzato, almeno fino ad oggi, il sistema politico italiano. 

 

“ … In primo luogo, i magistrati italiani godono di garanzie di indipendenza, interna ed esterna, più elevate di quelle dei loro colleghi stranieri – afferma Guarnieri nella voce richiamata nella Treccani -. Sia nel processo di reclutamento e socializzazione professionale sia nell'amministrare le garanzie che circondano il proprio status, i giudici italiani, così come i pubblici ministeri, non sono soggetti che a condizionamenti molto limitati e decisamente inferiori a quelli che si possono ritrovare altrove. Infatti, tutte le decisioni che li riguardano sono prese dal Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), istituito nel 1959 e composto per due terzi da magistrati eletti dai propri colleghi e per un terzo da professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con 15 anni di esercizio professionale eletti dal Parlamento. La tradizionale gerarchia è stata poi completamente smantellata. Una serie di provvedimenti legislativi, assieme all'interpretazione che ne è stata data dal CSM, ha reso le promozioni, che pure rimangono formalmente previste, di fatto automatiche nel senso che "il semplice soddisfacimento dei requisiti di anzianità previsti dalla legge è divenuto il solo criterio che regola lo sviluppo della carriera dei magistrati" (v. Di Federico, 1978).

 

Perciò, la magistratura italiana non è soggetta ai controlli esterni che, nonostante le critiche, sopravvivono ancora in Francia, il Paese che è rimasto più fedele al tradizionale modello burocratico-gerarchico e quindi ad una magistratura fortemente condizionata dall'esecutivo. Gode poi di maggiori garanzie di quella tedesca, sottoposta anch'essa in una certa misura all'influenza dell'esecutivo e del legislativo. Inoltre, il reclutamento dei giudici italiani, al contrario di quanto avviene nei Paesi di common law, risulta completamente sottratto ad ogni intervento istituzionale da parte dell'ambiente politico…

 

Achille Battaglia, definito giurista militante, collaboratore del Il Mondo di Pannunzio e grande avvocato e uomo di grande cultura storica e politica, che viene ricordato come persona che ha svolto un’assidua opera di difesa dei diritti costituzionali comuni, dei diritti di libertà, del diritto alla verità dell’informazione e alla trasparenza dell’esercizio di ogni potere scriveva, proprio su Il Mondo del 15 settembre 1953,  ne Il giudice responsabile: “ … Qual è il limite della cosiddetta immunità del giudice nell’esercizio delle sue funzioni? È evidente che un limite a questa immunità debba esistere, e debba essere rigorosamente difeso. Se ciò non fosse (se nel nostro ordinamento giuridico esistesse una categoria di funzionari costantemente coperti da irresponsabilità privilegiata, cui fosse lecito violare i doveri del proprio ufficio, e la legge comune, senza dover rispondere né dell’illecito che compiono, né del danno arrecato), la democrazia sarebbe finita, e saremmo già pronti per un regime di mandarinato.

 

Un limite dunque esiste, ed è certamente stabilito dalla legge. Ma sta di fatto che, ogniqualvolta ci si azzarda a censurare una sentenza aberrante o un provvedimento giudiziario, e a chiedere che il giudice sia chiamato a rispondere, in qualche modo, del suo operato, si levano subito alte grida contro questa innocente pretesa, come se essa costituisse un attentato alla libertà e alla indipendenza della magistratura! E perché mai? E che rapporto c’è tra la «indipendenza» dei giudici e la loro «irresponsabilità», o, come può anche dirsi, tra il loro diritto di non rispondere «al governo» del proprio operato, e il loro diritto di non rispondere, uti singuli, al «privato cittadino».

 

Se un rapporto c’è, oso dire che è proprio l’opposto di quello che comunemente si crede. I governi dittatoriali, infatti, hanno sempre bisogno di giudici proni e servili, ma, nello stesso tempo, son sempre pronti a coprirli, per i propri fini, della più larga immunità; e, all’opposto, i regimi liberi si fondano bensì su una magistratura indipendente, ma, se vogliono vivere, debbono renderla «responsabile» …”…

 

6. Una ennesima conferma della crisi profonda delle nostre istituzioni figlie di una cultura politica che si nutre di ricatto e di pressioni indirette. Siamo di fronte al cortocircuito della rappresentanza democratica che caratterizza oramai il nostro Paese: parlando con chiunque, in treno, in aereo o in coda all’ufficio postale, ci si accorge che esiste una questione legale aperta in ogni famiglia e che la percezione dell’inefficienza del sistema assume le dimensioni del fatto notorio. Nella rappresentazione mediatica, al contrario, il tema è ridotto ad immagine e somiglianza del tifo calcistico, quasi che l’Italia si dividesse davvero nelle fazioni dei tifosi. A causa di questa rappresentazione falsa ed artificiale delle opinioni dell’elettorato, figlie della spettacolarizzazione mediatica delle vicende giudiziarie, il sistema politico ha progressivamente perso di vista le dinamiche di ciò che si muove nel profondo della società, con l’effetto di sottorappresentare opzioni tutt’altro che irrilevanti.

 

E se il centrodestra appare ancora collegato ad una sua rappresentazione a modello cappio (con il paradosso che vede la Lega forcaiola e Salvini far propria la campagna radicale sui referendum sulla Giustizia Giusta) appare inquietante che sia il centrosinistra e in particolare il Partito Democratico a non liberarsi dall’ipoteca giustizialista. Basta ricordare cosa Luigi O. Rintallo su Agenzia Radicale scrisse: “… Chi rimane nell’equivoco è invece la dirigenza del PD. Dal «Corriere della Sera» leggiamo le dichiarazioni di Walter Verini, già membro della commissione giustizia della Camera, il quale dopo aver concesso – sua gratia – che il referendum è “in sé democratico”, subito dopo afferma che “rischia di essere divisivo e suona come sfiducia verso la capacità del Parlamento di adempiere a un dovere”…

 

Obiezioni che suonano per lo più mistificatorie dei dati di fatto e denunciano la natura fondamentalmente strumentale del partito che le avanza, distintosi nell’ultimo periodo per non avere quasi mai dimostrato una volontà di rinnovamento bensì solo subalternità a un disegno restaurativo a difesa dello status quo.

 

Come fa un referendum abrogativo a impedire le riforme? Il Parlamento fa le riforme autonomamente dai referendum, tant’è che le leggi approvate sui temi referendari prima del loro svolgimento annullano il voto popolare. Dai referendum non proviene alcun impedimento all’eventuale processo riformatore che, come è riconosciuto da tutti, non può limitarsi certo alla modifica del processo penale appena approvata ma deve investire proprio gli argomenti oggetto dei quesiti referendari: CSM, organizzazione dell’ordine giudiziario, riequilibrio dell’assetto costituzionale per la magistratura nel suo insieme…”.

 

L’elettorato di sinistra, in particolare, è variegato quanto ad opinioni sui temi della giustizia, così come in altri campi e non ha in Marco Travaglio (che di sinistra non è mai stato) l’unico ideologo. Si badi bene, nessuno può negare l’esistenza in Italia di una pubblica opinione di sinistra, più che legittima, che si riconosce nelle tesi giustizialiste della magistratura associata…

 

Sarebbe interessante se qualcuno, a sinistra, avesse il coraggio di raccoglierla, sfidando in campo aperto i molti luoghi comuni sedimentati nel corso degli anni, a cominciare dall’idea che i reati meglio si perseguano abbassando il livello delle garanzie individuali.

 

Anche perché sono milioni gli italiani che hanno avuto modo di entrare nei tribunali ed è diffusa la sensazione, non solo tra gli addetti ai lavori, che il sistema, così come è oggi, volendo tutto regolare e tutti perseguire, non sia in grado di tutelare i deboli e faccia il gioco dei forti. La presunzione di non colpevolezza, oltre che principio costituzionale, è criterio di civiltà e la sua attuazione piena dovrebbe fungere da vero filtro delle imputazioni azzardate, quelle imputazioni che, se protratte nel tempo anche contro l’evidenza, comportano costi economici rilevanti, senza contare la tragedia delle vite rovinate senza possibilità di pieno risarcimento. Se tutti sono presunti colpevoli, alla fine nessuno è veramente colpevole e i reati rimangono sulla carta. 

 

L’ equivoco sta nello svincolare il problema giustizia dal contesto più generale della crisi che stiamo attraversando, alla quale si tenta di dare soluzione con il piano di ripresa finanziato dall’UE: l’Europa ha deciso di intervenire prescindendo da ogni altra dinamica o vincolo precedenti, con la finalità di colmare il disavanzo strutturale che contraddistingue l’Italia in termini di arretratezza accumulata in tutti i settori.

 

Se viviamo in una condizione di oggettiva pre-modernità, gran parte delle cause all’origine del nostro ritardo risiede proprio anche nelle modalità di funzionamento della giustizia. Dentro questo scenario, si parla da anni della sua riforma e da anni siamo sotto accusa, da parte dell’Europa, per una serie di problemi che riguardano appunto la giustizia: da quelli relativi ai tempi dei processi a quelli che concernono la sua efficacia e la sua aderenza a un vero Stato di diritto che, spesso, in Italia latita. Ricordiamo che ci sono stati vari pronunciamenti delle corti europee, che hanno riguardato – ad esempio – la retroattività di alcune norme, che sono state utilizzate per comminare condanne di reati che non erano considerati tali in precedenza…

 

La definizione del ruolo salvifico attribuito alla magistratura, da Mani pulite in poi, per giungere sino agli atti che si sono formalizzati in questi ultimi mesi, certificano lo stato di crisi profonda di quello che – ricordiamolo – è l’ordine, non il potere, giudiziario. Nel momento in cui alcuni magistrati si sono arroccati nella difesa corporativa dei privilegi conquistati all’interno della perversa dialettica tra i poteri, hanno finito per non prendere coscienza della stessa crisi che li riguardava. Il sistema istituzionale è stato così, in qualche modo, terremotato facendo assumere a una parte della magistratura un ruolo determinante nel processo di disfacimento della dialettica democratica e della rivelazione stessa dell’assenza dello Stato di diritto in Italia.

 

Una parte della magistratura si è sentita dunque investita del ruolo di guida della nazione. Una guida fallace, non soltanto perché ciò annulla il principio di terzietà del giudice, ma perché ha condotto quei magistrati su un terreno che non gli è proprio, riducendone al contempo la legittimità. Di conseguenza questo stato di cose ha generato la situazione di stallo in cui ci troviamo, che impedisce al Parlamento di intraprendere una qualunque azione di superamento e risoluzione. L’intreccio delle crisi che investono tutti i soggetti, l’autocensura dei partiti rispetto al ruolo della magistratura o per lo meno della sua parte più politicizzata, che manifesta la pretesa di condizionare le dinamiche del Paese secondo logiche terrificanti dal punto di vista di una compiuta aderenza ai principi liberali di uno Stato democratico, hanno generato un blocco nell’iniziativa di riforma…

 

7. In questo scenario appare chiaro che le dinamiche in atto, gli equivoci e le contraddizioni di un governo tenuto insieme dalla forza internazionale di Mario Draghi spingono, al di là delle azioni intraprese e da intraprendere contro la pandemia, esplicitamente all’emersione di un disegno restaurativo e di scellerato continuismo che è la causa della crisi profonda che ci attraversa.

 

Ecco dunque che i referendum sulla giustizia rappresentano una prospettiva, offerta ai cittadini e non alle camarille di palazzo, per realizzare una rupture e porre un argine allo stato comatoso in cui versa la giustizia rappresenta oggi il principale problema della convivenza civile e dalla sua riforma dipende la stessa possibilità di un rilancio del Paese intero.

 

È un errore ritenere che i referendum possano rappresentare un ostacolo a un eventuale processo riformatore da parte del legislatore: tutt’altro. La riforma (il cui luogo, contrariamente a quanto dichiarato da Letta, non è il governo Draghi ma il Parlamento) è anzi favorita dai quesiti referendari che contribuiscono a individuare i nodi da sciogliere. Anche perché è finito il tempo delle diagnosi – oramai ampiamente recepite dal dibattito pubblico – e si devono indicare le terapie.

 

Il percorso dei referendum è autonomo e dà tempi certi, che non sono particolarmente lunghi: con la loro celebrazione entro il 15 giugno 2022, esso si conclude. Dai referendum non viene alcuna limitazione al lavoro dei parlamentari, i quali se prevarrà una disposizione fattiva hanno ben modo di realizzare le riforme che servono.

 

Se al suo posto, prevarrà invece ancora una volta la pratica dilatoria e si eluderà la rimozione degli ostacoli che impediscono alla giustizia di funzionare, allora i referendum saranno una straordinaria occasione per coinvolgere i cittadini in un confronto aperto apportatore di un chiarimento importante…” (Agenzia Radicale).

 


 

I referendum (promossi, con un'antica tradizione, dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito e dalla Lega), per quanto esposti alla tagliola della Corte costituzionale (in passato molto spesso candidata al ruolo di bloccaggio di ogni iniziativa costituzionale che i referendum riformatori radicali proponevano), costituiscono una provvidenziale occasione. Il sistema informativo lavorerà in ogni modo per depistare e attenuare sua forza democratica, puntando a far fuori ogni dibattito e informazione, limitandosi ad una burocratica notizia carica di falsificanti input. 

 

Ma resta il fatto che, proprio perché la crisi politico-istituzionale rischia di  essere affrontata fuori dalla volontà popolare, quella della prossima primavera è la più clamorosa occasione per manifestare (fuori dagli antagonismi stupidi, violenti, privi di senso politico e congeniali al sistema) che il vento dello stato di diritto può ancora essere capace di impedire fenomeni di nuove restaurazioni e di far intravedere una prospettiva riformatrice vera con il coinvolgimento pieno di cittadini finalmente partecipi del loro avvenire.

 

 



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