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26/04/24

Giovanni Falcone, per ricordare


Categoria: POLITICA
Pubblicato Martedì, 23 Maggio 2017 17:49

25 anni fa la strage di Capaci. Il 23 maggio 1992, sull’autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci nel territorio comunale di Isola delle Femmine, a pochi chilometri da Palermo il tremendo attentato. Vittime il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Gli unici sopravvissuti furono gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.

 

Quaderni Radicali pubblicò, in un suo libro-supplemento, pochi mesi dopo quell’orrendo massacro, quasi tutti gli interventi che Falcone pronunciò, nei due anni prima della morte, in convegni e interviste, più interventi di giornalisti, scrittori, magistrati e altri ancora che erano intervenuti sugli ultimi tormentati anni della vita del magistrato antimafia. Erano anni terribili, Falcone fu accusato dai “campioni dell’antimafia” di essere un cavallo di Troia della classe politica per controllare, legare le mani ai magistrati. Ecco cosa dicevano questi “campioni” dell’antimafia militante. Oggi tutti piangono Giovanni Falcone e con lui le altre vittime della strage… e nessuno ricorda quello stato di cose che si era venuto a creare.

 

Noi vogliamo ricordarlo, senza ipocrisia, provando a richiamare l’attenzione su quel clima orrendo che perseguitò Falcone prima della sua morte. Basterebbe richiamare alla memoria come Falcone, nella oscena campagna di diffamazione che subiva, fu per la terza volta bocciato dal CSM come super-procuratore. “Non è affidabile - urlava la mafia dell’antimafia -, ha perso le sue caratteristiche di indipendenza” (sic! ndr).

 

Di seguito di quel libro-supplemento di Quaderni Radicali (curato ahimè da Valter Vecellio),  pubblichiamo la prefazione del direttore della rivista Giuseppe Rippa e una intervista a La Stampa del 6 settembre 1991 in cui il giudice doveva “difendersi" dalle accuse dell’allora sindaco di Palermo (oggi ancora sindaco!) Leoluca Orlando di voler “insabbiare” e di voler tenere le prove delle responsabilità mafiose nei cassetti… Ecco ora tutti dimenticano questo clima ignobile e inquisitorio e vi sono anche quelli che si accodano ai ricordi di una nobile figura, campione reale della lotta alla mafia, con tutto il carico di ipocrisia di cui sono capaci.

 

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I professionisti dell’Antimafia

 

di Giuseppe Rippa

 

Leonardo Sciascia le definiva “persone dedite all’ eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono eroi della sesta”. La strage di Palermo, il barbaro assassinio di Giovanni Falcone, di sua moglie, dei tre agenti della scorta, ha ridato fiato agli eroi della sesta giornata, a quelli che Giuliano Ferrara chiama "le jene che dei caduti oscenamente si cibano... che continuano a sfogare la loro insaziabile fame di cadaveri e di guerra civile".

 

Leoluca Orlando Cascio, figlio di quell’avvocato il cui nome e rintracciabile nei verbali della prima commissione parlamentare antimafia, quella del 1968, in un'intervista a l’Unità — quotidiano dei post-comunisti - ha vomitato tutto quello che la sua meschina malafede poteva tirar fuori.

 

“Beato Paese, il nostro - scriveva Pirandello - dove certe parole vanno tronfie per via, gorgogliando e sparando a ventaglio la coda, come tanti tacchini".

 

L'ambiguo, equivoco esponente della Rete non è il solo sciacallo che si aggira cinicamente sui cadaveri.

 

Molti magistrati, guidati “amorevolmente" dalla “testa d’uovo" Galloni, vice-presidente del Consiglio superiore della Magistratura, accompagnano con il loro ululato il rito sacrificale.

 

Ad essi ha risposto degnamente il pubblico ministero di Milano, la dottoressa Ilda Boccassini che, con coerenza e dignità, a conferma della sanità del tessuto della nostra magistratura, nonostante le tante perversioni, ha urlato rivolta a tanti ipocriti suoi colleghi: " Voi avete fatto morire Giovanni Falcone. Con la vostra indifferenza. Con le vostre critiche... Voi lo avete infangato. Voi diffidavate di lui. E adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali..."

 

Il giudice Borsellino affermava - prima di essere anch'egli barbaramente ucciso - c'era chi aveva paura che Falcone diventasse ministro dell’Interno".

 

Chi poteva aver paura.

 

Il ministero è da sempre in fedeli mani democristiane. Tutti i segreti e le carte passano nelle fedeli mani scudocrociate. Chi poteva aver paura che un magistrato schivo e caparbio, poco propenso al politichese, tutto concentrato alla intelligenza delle cose, divenuto un vero e proprio archivio vivente della vicenda mafia, potesse prendere in mano - se erano vere le previsioni di Borsellino - un ministero che costituiva lo strumento centrale nella lotta alla malavita mafiosa e camorristica.

 

Noi ci limitiamo ad alcune osservazioni.

 

Per volontà del ministro Martelli, Giovanni Falcone è stato portato ad un ruolo operativo e centrale, e si è tentato di metter a frutto l'immenso patrimonio progettuale e operativo, di conoscenza e di capacità di questo magistrato simbolo nella lotta alla mafia.

 

Quest'uomo, alla luce della sua esperienza, aveva concepito l'ipotesi della Superprocura. ma si è trovato improvvisamente solo, infangato, come ha detto la dott.ssa Boccassini, dai suoi stessi colleghi e dai quaquaraquà come Orlando e Nando Dalla Chiesa.

 

Si è trovato, come Sciascia, ai "margini della Società civile" , almeno di quella che ci vorrebbero rappresentare la Repubblica di Scalfari , Samarcanda, o Michele Santoro , di quella che - diceva ancora il grande scrittore siciliano autore tra l'altro del "Giorno della civetta" - ha reagito sempre contro chi contrastava questi catto-comunisti, nel modo più incivile che si possa immaginare.

 

Quarant'anni di centralità democristiana, la sudditanza intellettuale dei pre-post-comunisti, la demagogia degli utili idioti di matrice Dc "rappresentati" come agenti del cambiamento.

 

I conti tornano tutti.

 

La domanda che ci si pone, più che lecitamente, è quindi la seguente: "Leoluca Orlando e soci sono soltanto ingenui esponenti di una confusione politica e di una analisi delle cose che si smarrisce nella smania della faziosità o agenti consapevoli di un disegno più perverso che ha come obiettivo la trama gattopardesca per cui tutto cambia affinché nulla cambi”?

 

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Non ho insabbiato. Mancavano le prove. Ecco perché Orlando sbaglia

 

Intervista a Giovanni Falcone a cura di Giovanni Bianconi (La Stampa. 6 settembre 1991)

 

Giudice Falcone, l’accusano di aver nascosto le prove sui legami tra mafia e politica, di non aver indagato su Salvo Lima dopo le dichiarazioni del pentito Mannoia, di essersi fermato sulla soglia del «terzo livello». Si aspettava, lei che era stato indicato come il giudice antimafia per eccellenza, di usare dipinto come un insabbiatore?

 

Questi sono i casi della vita. Mi ero accorto da tempo che non tutti condividono il mio operato. ma sinceramente non credevo si arrivasse al punto di accusarmi di seppellire le indagini. Faccio solo rilevare che tutti i fatti e le rivelazioni di cui si parla oggi sono emersi dalle mie indagini, non da inchieste fatte da altri e poi smontate da me. Aggiungo che ho un procedimento in corso, come pane offesa, con l'ex sindaco di Baucina Giaccone. che prima ha accusato il ministro De Michelis e poi ha ritrattato, dicendo che le dichiarazioni gli erano state estorte da me. Mi chiedo: sono uno che estorce affermazioni ai testi o un insabbiatore? E se avessi voluto fare l’insabbiatore certe cose le avrei messe agli atti?

 

Giovanni Falcone lavora ancora dietro una porta blindata. Non più nel bunker della Procura di Palermo, ma al quarto piano del ministero della Giustizia. Adesso però ripercorre le inchieste a cui si riferiscono le accuse di Leoluca Orlando.

 

«Nei cassetti del palazzo di giustizia non c'è più niente, tutti gli atti sono stati pubblicati con il deposito della requisitoria sui “delitti politici" che anch’io ho firmato. Non c'è altro. In un regime democratico tutte le critiche sono lecite e benvenute: possono dirmi che ho sbagliato, ma non che sono un colluso e che ho protetto mafiosi e politici».

 

Una delle accuse è proprio quella di aver coperto con gli "omissis" le dichiarazioni di Mannoia su Salvo Lima.

 

I verbali integrali di quegli interrogatori, durati più di due mesi, sono stati trasmessi subito all’Alto commissariato e poco dopo alla commissione parlamentare antimafia. Alla corte d’assise d’appello di Palermo sono stare inviare secondo le disposizioni di legge, solo le parti riguardanti gli imputati di quel processo. Da questo nascono gli omissis. Bisognerebbe ricordare che grazie ad altri omissis apposti alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta Ligio confermò nell'aula del primo maxi-processo la partecipazione della mafia al progetto del golpe Borghese. proprio perché ignorava che Buscetta ne aveva già parlato.

 

Ma è un fatto che Lima è stato chiamato a rispondere di quelle accuse solo da poco tempo, dopo quasi due anni.

 

Se vuole il mio parere, io Lima non lo avrei convocato nemmeno ora. A che cosa può servire una dichiarazione come quella di Mannoia sul piano processuale? Uno chiama Lima, come dopo è successo, e lui nega di aver mai conosciuto un boss come Bontade. Poi che si fa? Negli atti giudiziari c’è ben altro su Salvo Lima, e mi stupisco che gli accusatori di oggi non se ne siano accorti. Ci sono dichiarazioni precise che riferiscono dei rapporti tra esponenti mafiosi e l'on. Lima. E poco prima dell’arresto di Ignazio e Nino Salvo, poi condannati per associazione mafiosa, il giornale «L’Ora» pubblicò la foto dell’auto blindata dei cugini-esattori messa a disposizione di Lima. Il problema è che per fare un processo ci vuole altro che sospetti di questo genere.

 

Che cosa ci vuole, giudice?

 

Per esempio, ciò che ha portato all'avviso di garanzia per associazione mafiosa, partito dal mio ufficio, per gli imprenditori Costanzo di Catania. Il pentito Calderone aveva detto che nello studio del Costanzo, alla sua presenza, avvenivano riunioni di mafia; e che quando fu trovata una bomba a casa sua, Calderone si rivolse a Gino Costanzo per sapere disinnescarla. Se permette. e un po’ diverso dalla notizia di un incontro tra due persone.

 

Le dichiarazioni su Lima, dunque, non potevano portare da nessun’altra parte?

 

Bisogna distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie. Secondo me sotto il profilo penale non si poteva fare di più. Quello che io ho cercato di fare è di interrompere la solita trafila con cui si era andati avanti per decenni: omicidio eccellente, indagini che non portano a specifiche responsabilità per quel delitto, imputazioni collettive generiche, lunghe istruttorie con la carcerazione preventiva e poi proscioglimenti e assoluzioni per tutti.

 

Lei insomma sostiene che un'indagine antimafia, per approdare a qualche risultato, dev’essere improntata a rigore, ma anche a cautela: per Orlando è proprio questo che sta riportando l’antimafia al solito tran tran burocratico. Che cosa replica?

 

La continua, pesantissima interferenza in indagini così delicate ha già prodotto danni gravissimi. Faccio ancora l’esempio dell’inchiesta sui Costanzo, che dopo l'avviso di reato avevano cominciato a collaborare, e che a seguito di attacchi contrapposti e polemiche ingiustificate è finita in una bolla di sapone: il frazionamento delle inchieste, i contrasti tra i giudici, la Cassazione che ha aperto la strada allo spezzettamento delle dichiarazioni dei pentiti. Quanti altri danni deve produrre questa politicizzazione della giustizia, da qualunque parte provenga? Se si lanciano sospetti indiscriminati a raffica non ci saranno più poliziotti o magistrati che avranno voglia di fare indagini. Ed è assolutamente illusorio, significa non conoscere la mafia, pensare che a Palermo, dove ci sono centinaia di delitti impuniti, si possano enucleare gli omicidi più gravi e in virtù di chissà quali doti taumaturgiche arrivare alla loro scoperta.

 

Lei quindi è sicuro che, anche in presenza di indizi su legami tra mafia e politica, le indagini sono sempre andate fino in fondo?

 

Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo l’Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba. In una Sicilia dove non ci sono altri esempi che l’illegalità, occorre far vedere che il diritto esiste. Buscetta, puntandomi la mano contro, una volta mi disse: <<io accuso voi magistrati con due dita, come fanno gli arabi per indicare una colpa gravissima. Avete creato dei mostri dando rilievo a personaggi ai scarso peso, mentre in realtà i veri capi non li avete toccati».

 

Il procuratore di Palermo Gianmarco ha detto che Orlando ce l’ha con lei perché <<non gli ha voluto favorire nemmeno un avviso di garanzia da utilizzare politicamente contro Lima». é vero?

 

Nessuno mi ha mai chiesto nulla a riguardo. Posso confermare l’assoluta correttezza di Orlando su questo piano.

 

È un fatto però che prima rappresentavate, insieme, i simboli dell’antimafia e adesso siete su posizioni opposte. Che cosa si è rotto fra voi?

 

Dire che c’è stata una rottura tra me e l’ex sindaco significherebbe affermare che prima c’era un sodalizio, e non è vera nessuna delle due cose. Le nostre vedute divergono da quando Orlando ha fatto, l’anno scorso, la gravissima affermazione che noi tenevamo le prove nascoste nei cassetti.

 

Giudice Falcone, nell’88 lei minacciò di dimettersi davanti allo smantellamento del «pool>> antimafia, oggi dice che certe accuse sull’allentamento della lotta alle cosche sono ingiustificate. Non è in contraddizione?

 

Lo so, c'è chi sostiene che io sono passato su altri versanti, ma non è così. In me non è cambiato assolutamente niente, io sono sempre uguale a me stesso, voglio fare soltanto il magistrato. Posso avere maggiore esperienza, questo sì, e anche maggiore amarezza. Ma non certo minore impegno.

 

 



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