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24/11/24 ore

'Smetto quando voglio', ma non di ridere


  • Florence Ursino

Voleva far divertire, senza intenzioni liturgiche o ingannevoli moralismi, perché ridere per il gusto di farlo non è peccato. E ce l'ha fatta, Sidney Sibilla, classe 1981, a portare sullo schermo una commedia ironica, popolare, parodistica quanto basta per non cadere nel tranello della noiosa stereotipizzazione tipica del cinema italiano contemporaneo.

 

Pietro è un brillante ricercatore quasi quarantenne che, causa tagli all'Università, viene licenziato: niente più studio, niente più insegnamento, e ci sono un affitto da pagare e troppe spese da sostenere. Poi l'Idea prende forma: perchè non metter su una banda di spacciatori fatta di geniali ricercatori, ex colleghi, che, pur essendo eccellenze italiane, si ritrovano costretti a barcamenarsi tra alienanti lavori che nulla hanno a che fare con le loro vocazioni?

 

Ed eccoli, allora, novelli criminali, surreali (e un po' attempatelli) pusher che tentano di 'far carriera' e vendicarsi di una realtà che abusa delle menti e dei corpi, convinti di poter mollare tutto nel momento in cui saranno, finalmente, appagati.

 

“Smetto quando voglio”, fa dire ai suoi protagonisti Sibilla, e da qui l'omonimo titolo di un film, opera prima, in cui non si tenta di assottigliarlo, lo humor, ma lo si tinge di nero e lo si rende colonna portante di una storia che si nutre di battute popolane, di personaggi perfettamente caratterizzati, di una realtà caricaturale, quasi portata all'estremo, sì, ma mai ridondante, mai così pesante da affondare nella melma del ridicolo.

 

Qualcuno sarà portato forse a tacciare la pellicola di un abusato citazionismo, (almeno nell'idea di partenza è immediata l'associazione a colossi del calibro di Breaking Bad, The Big Bang Theory, I soliti Sospetti e altri ancora), ma l'operazione di Sibilla punta a non prendersi troppo sul serio, esaltando il lato grottesco di una storia che poteva essere tentata da velleità analitiche e moralizzanti, ma che ha preferito intrattenere, prendersi gioco delle ombre avvinghiate alle caviglie di ognuno di noi.

 

Luoghi comuni, cliché sono i punti di partenza, e non i limiti, di una sceneggiatura (a firma dello stesso Sibilla, di Andrea Garello e di Valerio Attanasio) solida e scorrevole, senza vuoti di trama, ritmata e forte di quella finzione di cui, ci sia consentito, ogni tanto è bello godere quando si parla di Cinema.

 

 


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