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20/01/25 ore

Niente muore: uno sguardo fugace sui sogni oscuri di David Lynch



di Gianni Carbotti

 

Il 16 gennaio 2025 si è spento David Lynch, regista, sceneggiatore, pittore, musicista e figura cardine del cinema contemporaneo. Aveva 78 anni. Con la sua morte, il mondo perde uno dei suoi più enigmatici e influenti visionari, un autore che ha saputo esplorare come nessun altro il confine tra sogno e realtà, tra bellezza e orrore, tra l'ordinario e il sublime.

 

 

Creatore di mondi in cui il reale si sgretola e il surreale ci sussurra verità nascoste, Lynch - che era nato a Missoula, Montana, nel 1946 - ha attraversato la storia della Settima Arte con opere che non solo sfidavano le convenzioni narrative, ma hanno ridefinito profondamente il linguaggio cinematografico.

 

Per chi scrive David Lynch non è stato semplicemente un Maestro da riverire e rivedere, da studiare e analizzare per trarre dalle sue opere continua ispirazione; è piuttosto un cattivo demiurgo, un cartografo dell’invisibile, un tessitore di realtà parallele dove il quotidiano si piega su se stesso, rivelando così il suo lato più tenebroso e al contempo meraviglioso. Ogni suo film è una porta, cigolante e minacciosa, che si spalanca su un universo parallelo: non solo un riflesso del nostro, ma il suo gemello deformato, un’ombra troppo densa per essere ignorata. 

 

Il suo esordio, Eraserhead (1977), è una ferita ancora aperta nell’immaginario filmico. In un bianco e nero che sembra dipinto con fuliggine e atrabile, Lynch ci consegna una visione apocalittica della paternità e del disagio esistenziale, un incubo industriale che ancora oggi risuona come un inquietante vagito alieno.

 

Ma il regista, che attraverso il suo lavoro ha sempre flirtato con le sottoculture - abbracciando temi legati al surrealismo, all'occultismo e alla trascendenza - non è stato solo un araldo dell’underground. Con The Elephant Man (1980), ci ha mostrato un’altra faccia della sua arte: la capacità di narrare con struggente delicatezza la tragedia di un uomo deforme, intrappolato in un corpo impossibile da accettare per sé e per gli altri. 

 

Una storia che, sotto la sua direzione, si trasforma in un canto di empatia e bellezza. Con questa pellicola, Lynch dimostrò di poter affrontare un cinema più convenzionale senza perdere la sua anima visionaria, conquistando otto nomination agli Oscar e il plauso della critica internazionale.

 

Poi ci fu Dune (1984), il grande passo falso di una carriera altrimenti impeccabile. L'adattamento del romanzo di Frank Herbert si è rivelato un’opera controversa, schiacciata dai compromessi con i produttori e dalle difficoltà di tradurre su schermo un universo tanto complesso. Eppure, nella sua estetica barocca, nei suoi costumi monumentali e nei suoi paesaggi onirici, febbricitanti di potere, Dune ha gettato semi che sarebbero germogliati negli anni successivi, influenzando l’immaginario visivo della fantascienza più estrema.

 

Con Blue Velvet (1986), Lynch ci ha fatto scoprire invece cosa si nasconde sotto il prato perfetto di una cittadina americana. L’orecchio mozzato trovato nell’erba, i sussurri di Isabella Rossellini e il volto demoniaco di Dennis Hopper sono diventati simboli di una società che si consuma nell’ipocrisia, sotto la maschera della normalità. È un noir, sì, ma l’autore lo ha trasformato in un rituale oscuro, un viaggio che scava nella carne e nella psiche.

 

E poi, Twin Peaks (1990-91): non una serie, ma un varco. Attraversando i suoi boschi, David Lynch ci ha trascinati in un mondo dove il confine tra reale ed irreale si dissolve, in un santuario dell’assurdo, dove il buono, il cattivo e il soprannaturale si fondono in un vortice ipnotico, in cui Laura Palmer, la reginetta del ballo assassinata, non è solo un personaggio, ma il cuore pulsante di un enigma cosmico. La brava ragazza di provincia dalla doppia vita, simbolo della dicotomia lynchiana tra purezza e corruzione, aveva detto in un episodio "ci vedremo di nuovo fra 25 anni" e il Maestro ha mantenuto la promessa, consegnandoci nel 2017 una terza stagione che è pura meditazione sulla memoria, sulla perdita e sull’inevitabilità del tempo.

 

E come dimenticare Mulholland Drive (2001), pellicola considerata tra le più grandi del XXI secolo? Questo noir onirico esplora il lato labirintico dell'identità, dell'amore e dell'ambizione, mostrando come Lynch sia stato non solo un campione della forma, ma anche un profondo osservatore delle emozioni umane. La sua abilità di manipolare il tempo, lo spazio e il tono lo ha reso unico, un autore capace di generare emozioni tanto intense quanto difficili da catalogare.

 

Con Inland Empire (2006), il regista americano ci ha chiesto infine di abbandonare ogni certezza. Girato con una videocamera digitale e senza copione, il film è pura psiche: frammentata, dolorosa, disorientante. Non un’opera da capire, ma da vivere, da cui lasciarsi attraversare.

 

Diciamolo francamente, David Lynch non ha mai guardato il mondo come noi. Lo scrutava con occhi che penetravano oltre il visibile, scoprendo il battito segreto delle cose. Era un alchimista del quotidiano, capace di trasformare una tazza di caffè nero o il fruscio di un ventilatore in un presagio. Nel suo mondo non c’era nulla di banale, perché ogni cosa poteva essere un portale verso il sublime o il terrificante. E la sua arte non si limitava al cinema: dipinti che urlano con colori brutali, fotografie di paesaggi desolati che sembrano sospesi nel tempo, musica che è un'eco delle sue percezioni interiori. Anche nella meditazione trascendentale, Lynch aveva trovato un ponte tra il caos e la pace, un equilibrio che rifletteva il contrasto eterno tra luce e ombra presente nei suoi lavori.

 

Con la sua scomparsa, l’universo sembra aver perso un custode dei suoi misteri. Eppure, le sue visioni restano con noi, come sogni che non si dissolvono al risveglio. David Lynch ci ha mostrato che il reale è solo la superficie, che sotto la sua pelle pulsa qualcosa di più profondo, più oscuro, più meraviglioso.

 

Ora, nel silenzio, sentiamo ancora il suono del vento tra gli alberi. Forse è Lynch che ci chiama da quel luogo dove tutto è possibile, dove il confine tra sogno e incubo finalmente non esiste più.

 

 


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