Quando siamo chiamati a votare ci troviamo spesso in una condizione ambigua, sentiamo - lieve o profondo - un certo entusiasmo per l’aria di festa popolare che accompagna quel rito necessario e, sempre, un doloroso disagio, come se quel votare non corrispondesse a una reale partecipazione per trasformare, insieme, la vita. Quasi fosse, insieme, festa e inganno.
POESÌ di Rino Mele
Il voto e il vuoto
In un’ardua semplificazione, come nei salti delle belle
figure del circo, quando nel trapezio (che oscilla leggero) saltando in
alto, nel vuoto, un atleta
vola
si lascia prendere dalle
braccia sicure di un altro, e le afferra,
dovrebbe essere l’azione di votare: trasmettere a un altro la tua forza,
la richiesta
e l’urgenza di una necessaria azione sociale. Non la delega stanca,
incerta,
che è spesso un fuggire da noi stessi,
un liberarci dal nostro impegno. Chi votiamo
dovrebbe saper rappresentare le mani salde del trapezista
cui affidiamo le nostre
nelle figure del difficile salto. Dovremmo, poi, poter controllare, senza
stancarcene: ritirare, confermare, quella fiducia
e l'impegno.
L'importanza di trasformare il progetto
in figura sociale,
continuando - in qualche modo - ogni giorno a dare quel voto, a
trasmettere
la nostra volontà, la richiesta, la verifica di quella delega. Le mani del
trapezista s'aprono,
le braccia si tendono, da sconosciuti si diventa fratelli,
compagni,
se oltre il voto continua l'urgenza
di realizzare il progetto, l’idea che è fatica e utopia.
Invece, è miseramente diverso quello che accade: col voto indichi
un capro espiatorio, lo travesti da re e sottrai all’invidia:
se è eletto si trasforma nel delirio
di una vana immagine,
un potere ineffabile, si guarda dattorno, si gonfia con gesuitico terrore, si
nasconde in uno specchio.
Nell'attimo del voto deleghi uno che (spesso) non conosci, lo estrai da
una lista che altri
hanno composto secondo familiari regole furbesche.
Dovebbe mettere in gioco se stessi quel delegare, ma a volte è solo
affidarsi a un’ombra,
quasi un liberarsi dalla responsabilità di fare per gli altri
quello che, col voto, chiedi ad altri di fare.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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