Le nostre dita finiscono col rimanere legate mentre s'industriano a sciogliere arcani enigmi, figure col nostro irriconoscibile volto, il ripetersi nella veglia del sonno, le piccole colpe ineludibili, i singulti del pianto dell'infanzia dimenticata, le voci di coloro che, senz'ali, sono volati via.
RINO MELE
Una donna tra i morti
Se tornasse, non riconoscerebbe
nessuno,
questa stanza dove siamo le sembrerebbe
bianca di calce, vuota, le nostre voci
un confuso rumore d’api,
la chiameremmo
per nome, si siederebbe accanto a noi,
stanca per la fatica d’essere morta.
Euridice arrivò sulla soglia,
poi fu tirata indietro da un terribile vento.
In questa grande sala d’aspetto,
o è una collina - l’erba bagnata dall’acqua
mattutina - al volto, riflesso
in un vetro, parliamo, a quel vano apparire
chiediamo il nome,
la voce s’inceppa, rispondiamo
a noi stessi, l’orrore
di non conoscere il nostro volto.
Intorno, una struttura circolare, su cui
ininterrottamente
sono proiettate immagini
d’una guerra infinita. C’è una sedia vuota,
un libro, l’ombra di un cane.
Se tornasse chi è morto:
per dire al suo sconfinato silenzio,
alla sua figura d’aria, il nostro stupore
dovremmo avere parole
originarie come il pianto. Fuori,
nessuno
vede il passero fermo sulla neve.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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