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23/11/24 ore

'La Festa' dei detenuti del carcere di Rebibbia


  • Francesca Garofalo

Primi anni del Novecento. Nelle cucine di un grande transatlantico fervono i preparativi per il diciottesimo compleanno di Miriam, la figlia dell’armatore. Non è un compleanno qualsiasi, non un viaggio qualsiasi, non una festeggiata qualsiasi.

 

Miriam ha trascorso in navigazione i primi sei anni della sua vita, nascondendosi furtivamente tra servizi di piatti pregiati e pentoloni, assaporando le delizie che solo per lei i numerosi cuochi di bordo elaboravano con infinita maestria.

 

Lasciando la nave per affrontare gli studi, l’adolescenza, il mondo “normale”… la ragazza lascia anche un incolmabile vuoto nell’animo dei suoi tanti padri, quanti sono i cuochi della nave. Loro la ricorderanno sempre, unico affetto filiale tra il rude cameratismo della ciurma.

 

Ed ecco che i festeggiamenti hanno inizio, chissà se Miriam si ricorderà di quei cuochi ragazzi diventati maturi chef? Chissà se, ormai donna, sgattaiolerà nelle cucine come ai vecchi tempi, fasciata dal suo incantevole abito verde smeraldo… Nelle cucine si vive l’attesa di un ritorno che restituisca loro un attimo di gioia dopo anni di reclusione e solitudine affettiva. Ma Miriam non si fa viva.

 

L’enigma offre un motivo ispiratore per parlare dei sogni infranti, dell’età della giovinezza, delle speranze di uomini che non hanno mai trovato il coraggio di salire le scale che da sottocoperta conducono agli sfavillanti saloni di prima classe...

 

Con il sostegno della Fondazione Roma- Arte- Musei, l’organizzazione del Centro Studi Enrico Maria Salerno e grazie alla passione di Laura Andreini Salerno e di Valentina Esposito, i detenuti del Reparto G8 Lunghe Pene del Carcere di Rebibbia hanno debuttato sul prestigioso palcoscenico del Teatro Argentina nella pièce La Festa.

 

I detenuti sono stati affiancati da venti giovani allievi attori dell’Accademia Internazionale d’Arte Drammatica, che grazie a permessi speciali, hanno avuto la possibilità di provare con i loro colleghi all’interno della struttura carceraria.

 

Un testo piacevole, un alternarsi di sorrisi e lacrime sospeso tra passato e presente portato in scena con una professionalità e un sentimento da non sottovalutare. Essenziali ma suggestivi la scenografia e i costumi di Enzo Grossi e Paola Pischedda. Elegante ed estremamente delicato l’epilogo, durante il quale ognuno ritrova finalmente la “sua” Miriam, proiezione di sogni infranti, di un ideale di affetto, di percorsi mancati.

 

Teatro non solo come rieducazione sociale, ma come riabilitazione per l’anima. Con il teatro si acquisiscono abilità tecniche, manuali, linguistiche, interpretative, si lavora sul singolo e sull’insieme, si infrangono le consuetudini del carcere, si trasformano le funzioni degli spazi ipotizzando luoghi di libertà e scambio laddove vigeva la separazione.

 

Il carcere, da istituto di pena, può diventare un istituto di produzione di cultura dove si analizzano a fondo le contraddizioni della società, dove si indirizzano diversamente energie in precedenza mal utilizzate. Il lavoro nelle case di reclusione ha bisogno di finanziamenti e interventi ragionati. Purtroppo però il grande fermento delle attività legate al teatro e carcere si scontra quotidianamente con una legislazione attualmente inadeguata.

 

Assurdo che resti un teatro invisibile alla società, che si venga privati della possibilità di assistere ad un rito puro di cui si è persa quasi memoria, essendo ormai, molte volte, contaminato dal meccanismo economico e commerciale.

 

Più spesso dovremmo poter partecipare ad eventi del genere, momenti di condivisione vera, dove la barriera che separa proscenio e platea viene demolita consentendo all’emozione di sommergere il pubblico completamente.

 

In questo caso si trattava di un’emozione particolare, di uomini alla disperata ricerca di un cenno d’approvazione da parte delle loro famiglie, di figli, padri, fratelli accorsi in massa, disseminati negli eleganti palchi del teatro e pervasi dal desiderio di gridare un nome, di far sentire la loro presenza, il loro sostegno, incuranti del silenzio assordante o della solennità di una scena. Quella la vera suggestione, il vero spettacolo.


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