Il condannato è una pièce teatrale che ha al suo centro la vicenda del rapimento Moro nella ricostruzione che ne ha fatto l’ex direttore de «la Repubblica» Ezio Mauro. Giuseppe Rippa lo ha incontrato, dopo la rappresentazione al Todi Festival 2018 del 29 agosto e ha avuto con lui questa conversazione.
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Questa trasposizione teatrale mi ha colpito perché ho visto un’opera che testimonia un approfondito lavoro di ricerca sulle fonti e sui materiali, al di là delle interpretazioni che possono essere diverse. Il dramma ha la sua forza interpretativa nell’aver creato un pathos attorno ai caratteri umani dei singoli attori della vicenda. È un’impressione corretta?
Lo spettacolo proposto è il risultato delle tre puntate uscite sul quotidiano, da me riadattate per il palcoscenico. Si tratta pertanto di un lavoro giornalistico che viene “letto” in teatro, anche perché io non sono un attore ma un giornalista. Per questo vado in scena con il foglio e non recito…
Infatti, si è ben compreso che hai voluto imprimere questo carattere di lettura più aderente alla tua natura…
È chiaro che resto un giornalista. Quanto all’aspetto umano, cui ti riferivi, ha certo la sua rilevanza. Riprendendo in mano la vicenda Moro, che avevo vissuto mentre facevo il cronista, ho notato una differenza anche in me stesso. Nel senso che allora il rapimento lo consumavamo sotto la spinta feroce della cronaca. Ogni giorno leggevamo i comunicati brigatisti e le lettere del rapito, sperando che ci fosse una qualche novità.
Oggi rileggiamo quelle vicende cercando di scoprire la battaglia che Moro faceva semplicemente per tentare di sopravvivere. Ritenendo che la sua famiglia avesse un bisogno di lui, come di un’assoluta necessità. In particolare il nipote Luca, che aveva all’epoca due anni. Intanto sono cambiate anche tante cose: sono diventato padre, sono diventato nonno e quindi cambiano le condizioni, e con esse le relazioni e le proporzioni… Cambiano i modi di guardare alla vita.
Anche di fronte all’enormità di quella tragedia, rimango convinto che fosse giusto non trattare: lo dico sottovoce, perché comprendo perfettamente le ragioni di chi invece si è battuto per la trattativa. Credo che sia onesto dire che questa vicenda dilania ognuno di noi e interpella una parte di ognuno di noi. Voglio dire che dentro di me ci sono le ragioni della trattativa, perché c’è qualcosa di sacro nell’uomo inerme che chiede di sopravvivere e rende arida la ragion di Stato. Ma lo Stato deve domandarsi chi viene domani dopo il prigioniero di oggi. E lo Stato ha di fronte qualcuno che ha in mano la vita del prigioniero, ma anche in qualche modo la vita dello Stato e vuole deformare la democrazia, perché questo era lo scopo dei brigatisti.
Dunque, lo Stato ha sì l’obiettivo della vita del prigioniero che gioca ai dadi, ma anche l’obiettivo della vita della democrazia, minacciata da chi la vuole programmaticamente deformare. Quindi la libertà dello Stato di prendere le sue decisioni diventa qualcosa di importante… So che dicendo queste cose, possono accusarti di statolatria…
Questo lo evidenzi bene nell’opera. Ritieni che nella solitudine della prigionia, Moro si preoccupasse solo della mera sopravvivenza o avesse una visione più articolata e più ampia? Che la salvezza dello Stato fosse legata cioè solo a questo evento o dipendesse da una serie di meccanismi che caratterizzavano il nostro Paese e che rendevano quasi obbligate le mosse che egli ha fatto durante quei mesi?
Moro era certamente abituato a guidare il gioco politico e quindi, a un certo punto, studia le persone che credono di studiare lui interrogandolo. I brigatisti ritenevano di avere la carta vincente nel processo intentato contro lo Stato: vale a dire la rivoluzione che processa la storia italiana della repubblica. Invece si rendono conto di non avere la carta che può svelare i misteri italiani, e che Moro riporta il gioco al largo: non c’è alcun messaggio segreto dentro la bottiglia democristiana da aprire all’improvviso. Questa cosa li sconcerta e infatti chiudono il processo più presto, già con il comunicato n. 6 del 15 aprile 1978.
C’è un punto centrale che io sono stupito non venga messo al centro di tutte le analisi: Moro viene condannato a morte per esclusiva indipendente al tema volontà e responsabilità dei brigatisti il 15 aprile, a meno di un mese dal rapimento. E questo perché non riescono a gestire l’interrogatorio, che non produce nulla di politicamente spendibile sul mercato politico.
Credi che i brigatisti avessero gli strumenti culturali per interpretare quel ruolo o fossero totalmente scheletrici nella loro unicità di lettura degli eventi?
Sono ideologici, ma non sono certo degli stupidi visto che hanno messo in piedi una macchina organizzativa che funziona. La “geometrica potenza di Via Fani” di cui parla Franco Piperno ne è una prova: certo hanno avuto un po’ di fortuna e poi ci sono gli aspetti oscuri di cui abbiamo parlato attorno a tutta l’operazione del rapimento.
Sono spiazzati da Moro che conduce il gioco dell’interrogatorio. È prigioniero, è al buio e non sa nulla di quanto avviene fuori, però cerca di condurre un doppio gioco: impadronirsi dell’interrogatorio che viene fatto ai suoi danni, e al tempo stesso impadronirsi del gioco di fuori con le lettere che invia al mondo politico a cominciare da quelle a Cossiga.
A un certo punto individua la Democrazia Cristiana, perché capisce che l’unica carta da giocare è lo scambio dei prigionieri. Moro comprende due cose: che la dinamica interna al rapimento porta all’esecuzione capitale; e che l’unica via di scampo accettata dai brigatisti è lo scambio di prigionieri, quindi si dichiara automaticamente e autonomamente “prigioniero politico”. Se lui è prigioniero politico, lo ha in mano necessariamente un soggetto politico: in questo modo suggerisce implicitamente il riconoscimento politico dei brigatisti. Per questo interloquisce con la DC, in quanto è il soggetto che può favorire lo scambio, essendo la DC stessa il governo del Paese.
Da suggeritore-amico della DC, di cui è il presidente del Consiglio nazionale, diventa l’interlocutore polemico, critico feroce e nemico, sino ad essere dimissionario dal partito.
Moro segnala a Zaccagnini che già in passato il governo ha trattato coi terroristi, ad esempio con estremisti palestinesi. Il che è indicativo, perché riapre il dibattito sul processo formativo delle nostre classi dirigenti e sul carattere cooptativo che lo accompagna, sui meccanismi del post-Yalta per cui la selezione avveniva dentro il sistema dei partiti. Nella gestione del suo interrogatorio, Moro in qualche modo svela la natura profonda del sistema di governo impostosi in Italia e quella lettera a Zaccagnini ne fa emergere le contraddizioni…
Nella lettura teatrale, riporto la sua polemica con Taviani. Moro ricorda come, durante il caso Sossi, Taviani fosse favorevole alla trattativa. Taviani lo nega, e Moro svela come egli da Ministro dell’Interno e della Difesa è stato molto vicino agli Americani e si avvicina alla soglia di Gladio già nel 1978; allude cioè a un “segreto” che sarà rivelato solo molti anni dopo.
Il paradosso è che i brigatisti nemmeno se ne accorgono, non ne hanno la percezione né sono in grado di capirlo, nonostante si fossero in qualche misura preparati con cura. Gallinari rivelerà di essere andato più volte in libreria per comprare libri sulla Democrazia Cristiana e sul suo modo di pensare. Hanno preparato i loro capi d’accusa, riferiti alla Trilateral e quant’altro… Naturalmente di misteri italiani ce ne sono tantissimi da scoprire, ma non è che ci fosse una scatola dei misteri da aprire…
Anche perché la realtà è molto più articolata di quanto pensassero…
In questo senso credo che Moro fosse condannato nel momento in cui venne rapito. Perché lo schema brigatista è: lo Stato liberale è stato soppiantato dallo Stato Imperialista delle Multinazionali (il famigerato SIM); il centro del SIM in Italia è l’asse della Democrazia Cristiana; l’elemento portante della DC è Aldo Moro, per cui egli è responsabile dei misfatti della DC, dei misfatti del governo italiano, dei misfatti del SIM e quindi è condannato in partenza. Su di lui si scarica un diluvio universale di responsabilità. E questo Moro lo capisce…
Al castello di Belgioioso, durante la kermesse della piccola editoria, ho incontrato nel 1997 Geraldina Collotti e Prospero Gallinari. All’ex brigatista ricordai l’appello che i radicali rivolsero nel 1979 ai “fratelli assassini” delle Brigate Rosse, evidenziando come la loro azione presentasse un elemento di complicità con l’élite dominante, dal momento che quello della violenza terrorista era il terreno più congeniale a uno Stato che voleva allontanare le ipotesi di cambiamento dal suo orizzonte politico. Devo dire che quello che mi impressionò, fu che Gallinari era veramente uno dei rappresentanti della cultura non dico nečaeviana, ma leninista nella sua definizione più puntuale. Si smarcò, ma era già evidente dentro di lui un’evoluzione della pratica debolezza del proprio impianto di interpretazione della realtà politica e della stessa Democrazia Cristiana…
Non dimentichiamoci, quando diamo giudizi su tutta questa vicenda, ancora terribilmente aperta e che mi appare ogni volta come una parete da scalare, che alla fine i brigatisti sono stati sconfitti. Quando proprio Gallinari smonta la bandiera appesa al muro nella stanza-prigione di Aldo Moro, mentre la carovana brigatista accompagna la salma in Via Caetani, non si rendono conto che stanno smontando la storia della loro stessa organizzazione.
Certo, uccideranno ancora; non c’è niente di più semplice che uccidere le persone in tempo di pace. Loro, i brigatisti, erano armati mentre il cittadino vittima è disarmato, crede di vivere in mezzo all’Europa democratica. Come quando spararono a Casalegno, lo chiamano per nome e cognome, lui si volta e aveva solo la stilografica nel taschino; invece loro hanno le pistole. Dopo Moro, uccideranno ancora, perché non c’è niente di più facile e di più vile. Ma sono in realtà sconfitti, già durante il rapimento del leader dc…
Quando colpiscono Moro si evidenzia la proiezione di quel che dicevamo, la loro debolezza strutturale. In questo posso essere convinto che c’è stato un criterio interpretativo della fermezza che non era soltanto subdolo o legato alla copertura di trame che non dovevano essere rivelate. E quindi convengo sul fatto che il lavoro teatrale riapre una storia, che non è soltanto un’esegesi casuale; è la ricerca di quelli che sono i punti critici della crisi italiana. Lo dico anche dal mio punto di vista, favorevole alla trattativa…
(trascrizione di L.O.R.)