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29/12/24 ore

Una nuova realtà europea attraverso il dialogo e la cultura. Il teatro La Pergola e il théâtre de la Ville, la Carta 18-XXI, e molto altro. Il reportage di una conferenza illuminante



di Giulia Anzani Ciliberti

 

Venerdì 22 aprile. Sta per iniziare la conferenza presso il teatro La Pergola di Firenze, che riesco a seguire da Roma grazie al collegamento su Teams. 

 

Il primo a parlare è Marco Giorgetti, direttore generale de La Pergola, che introduce la conferenza, spiegando che queste giornate (di cui abbiamo già parlato qui), sono il punto di partenza di una collaborazione europea di cui Firenze e Parigi si fanno rappresentanti. Ciò che si cerca è un “nuovo teatro europeo, un cantiere che avrà dei punti di incontro”, spiega, “a partire dal Festival d’Europa in cui Firenze e Parigi saranno coordinatrici di una giornata europea”.

 

Dopo il breve preambolo, la parola passa a Emanuelle Demarcy-Mota, direttore del Théâtre de la Ville con, fortunatamente per me che non capisco una parola di francese, la sua traduttrice di fianco. “È una grande emozione trovarsi insieme come esseri umani dopo la pandemia”, inizia. “Questa pandemia è un evento eccezionale che ha colpito tutti indistintamente. Tutti i teatri del mondo sono stati chiusi, per la prima volta nella storia, nello stesso momento. Bisogna chiedersi: cosa significa un teatro chiuso? La chiusura di un luogo così significativo, in cui si esercitano pensiero e creatività, ci ha portati a capire quanto la situazione fosse grave.” 

 

Racconta di come lui e la sua equipe, in questo periodo di lontananza forzata, abbiano attivato un progetto di consultazioni poetiche a distanza “one to one”, a dimostrazione che il pensiero e la poesia non possono essere fermati. Il ruolo di attori, musicisti, artisti, non è in nessun modo secondario all’interno di una società.

 

I due teatri, quello di Firenze e quello di Parigi, avevano una relazione già da tre anni, da prima dello scoppio della pandemia, e ciò ha permesso di attraversare la crisi a testa alta, di resistere attraverso un periodo di estrema difficoltà.

 

Si passa poi ad un punto topico della conferenza: la Carta 18-XXI.

 

Demarcy-Mota e la sua equipe si domandavano cosa fosse e cosa rappresentasse il XXI secolo. La risposta è stata: la cultura. La cultura è fondamentale per tutti i cittadini, senza distinzione di genere e nazionalità. È un traghetto che ci avvicina l’uno all’altro. Da questa riflessione nasce la Carta, che è una cornice all’interno della quale ci si interroga sul presente, sulla realtà degli anni ’20 del XXI secolo, considerando i “giovani di oggi”, nati proprio in questa nuova realtà.

 

La situazione politica in Francia, si trova attualmente a uno snodo importante, considerando che l’estrema destra è arrivata al secondo turno. Esistono, in effetti, due France: una ha voglia di ripartire, ricostruire e aprirsi all’Europa e al mondo; l’altra si sta ripiegando su se stessa, chiudendosi alle diversità. In un contesto in cui arte e cultura hanno un ruolo fondamentale, e in un momento di crisi post pandemia e con una guerra a due passi da noi, co-esistono questi due mondi così diversi. Uno strumento come la Carta 18-XXI è un buon modo per aprire un dialogo, e anche per coinvolgere il mondo della scienza, da sempre visto come “altro” da quello degli studi umanistici… quando invece si tratta di due facce della stessa medaglia. 

 

La dimensione della Carta vuole abbracciare non solo l’Europa, ma aprirsi a tutti i continenti. “Se non riusciamo in questa impresa, torneremo alla condizione di un ripiegamento sull’individualismo, che è quello che ci sta spaventando in questo momento, e verso una società basata proprio sul principio di individualismo e consumo”, continua Demarcy-Mota.

 

La bellezza di questo strumento risiede nel multilateralismo e nell’incontro di diverse culture. E dunque torniamo al discorso degli spettacoli che in questi giorni calcheranno le scene: recitare Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello in Italia ma in lingua francese, è un’esperienza molto forte e simbolica. E la stessa cosa vale per lo spettacolo ispirato a Ionesco, autore di origine romena ma che ha sempre scritto in francese: un incrocio di nazionalità che è per loro “una gioia poter difendere anche in altri Paesi”, anche fuori dall’Europa.

 

A questo punto, Marco Giorgetti riprende la parola per sottolineare quanto sia importante in un momento delicato come quello attuale, essere punto di riferimento per chi cerca casa: il teatro La Pergola e il de la Ville si sono attivati offrendo residenza ad artisti ucraini che scappano dalla guerra.

 


 

Segue la lettura di alcuni estratti della Carta 18-XXI, che ci permette di avere una visione immediata del suo contenuto. “Avere 18 anni nel XXI secolo”, inizia uno dei due attori che legge. “Celebrare la maggiore età dei primi figli del XXI secolo”. E poi, uno dopo l’altro, elencati con fermezza, i punti fondamentali. “Lavorare contro i confini, fisici e mentali”, è una delle frasi che mi ha colpita di più. Mi ha fatto riflettere su quel muro che esattamente sessant’anni fa veniva alzato per dividere l’Europa, e su quanti 9 novembre 1989 dobbiamo ancora attraversare per  riuscire ad abbatterli tutti, fisici e mentali, appunto.

 

Ci riusciremo mai? Domanda retorica, ovviamente. Ma la Carta mi sembra manifesto di qualcosa di buono. Si presenta, e lo specificano più volte, come un ponte: tra nazioni, linguaggi, generazioni e persone. Più ponti, meno muri.

 

I due attori ora protagonisti della scena, leggendo i punti fondamentali, citano anche il grande Stephen Hawking per dimostrare l’unione tra arti e scienza che la Carta vuole portare a galla. Hawking nel 2015, tenne un discorso presso l’incontro annuale del Forum Economico Globale a New York: “Ho trascorso la mia vita viaggiando attraverso l’universo nella mia mente. Attraverso la Fisica Teorica ho cercato di rispondere ad alcune delle grandi domande. Ma ci sono altre sfide, altre grandi domande a cui è necessario rispondere e queste avranno bisogno anche di una nuova generazione che sia interessata, impegnata e con una comprensione della scienza”. Nello stesso discorso, che poi ho cercato integralmente, dice anche “Dobbiamo diventare cittadini globali”, e credo sia tutto qui il senso di questo straordinario progetto che, ad essere onesta, mi emoziona un po’.

 

Ogni individuo ispirato dai principi della Carta 18-XXI può diventarne ambasciatore. Essere ambasciatore per la 18-XXI significa sostenere simbolicamente i principi della Carta e agire in suo nome”, concludono.

 

Questi sono spunti su cui si lavora, presi direttamente dalla voce dei giovani del XXI secolo”, spiega Marco Giorgetti.

 

Ora è necessaria una premessa: correva l’anno 1906, quando Eleonora Duse interpretò, nel teatro La Pergola, Rebecca West in Rosmersholm di Ibsen, con l’allestimento scenografico di Edward Gordon Craig. In quell’occasione fu costruito per lei quello che diventerà il Primo Camerino de La Pergola - primo per importanza e per vicinanza al palcoscenico. La chiave di questo Camerino è stata, negli anni, donata a tanti personaggi di spicco. Per citarne alcuni: Vittorio Gassman, Aroldo Tieri, Franco Zeffirelli, Arnoldo Foà

 

Detto ciò, capirete l’emozione di chi - come noi, presenti virtualmente e non - ha assistito alla consegna della chiave da parte del direttore Giorgetti al direttore Demarcy-Mota, “in simbolo e suggello di fratellanza, vicinanza, collaborazione e amicizia”.

 


 

In conclusione, a seguito di una domanda di Katia Ippaso de Il Messaggero, Emanuelle Demarcy-Mota, fa una riflessione straordinaria: “Per me è fondamentale non cambiare gli attori, per lavorare sul loro invecchiamento. Il lavoro basato su Ionesco è cominciato nel 2005, 17 anni. Diciamo sempre che il teatro è l’arte dell’effimero, rispetto a cinema e pittura, ma per me non è così: è l’arte della durata nella durata della vita. Questo rapporto tra vita e teatro è il punto di partenza. Quando si lavora con Ionesco, sul lavoro con corpo e vicinanza, ci si nutre di tutte le rappresentazioni e di tutti i luoghi in cui lo spettacolo è stato fatto. Questa stessa rappresentazione è stata data a Mosca quattro anni fa e ieri pensavo proprio a questo, chiedendomi oggi cosa succede in quella città. Ma comunque erano gli stessi spettatori, ieri e quattro anni fa, moscoviti o italiani. Si lavora rispetto a uno spettatore immaginario, di qualunque nazionalità egli sia. Con Ionesco la base del lavoro è l’angoscia dell’essere umano, un’angoscia che porta a ridere: la nostra vita è cronometrabile e finita. Non si lavora solo con la parte comica ma sull’angoscia che l’essere prova nel rapporto col mondo. Bisogna accettare la parte disperata dell’essere umano, l’angoscia insuperabile di cui si deve imparare a ridere. Questa dimensione di finitezza in Ionesco mi porta a pensare a Pirandello, perché ho lavorato parallelamente sui due autori.

 

A questo punto del discorso, fa un salto indietro al “1921, l’anno in cui Einstein ricevette il Nobel per le sue scoperte circa la relatività. Ma anche il periodo della prima guerra mondiale in Europa, in cui si pone la questione della finitezza rispetto all’indefinito, e dunque la questione dell’eternità del personaggio rispetto alla finitezza umana: uno zoccolo fondamentale del discorso. La problematica della finzione è essenziale. Proprio Einstein diceva che “non la conoscenza ma l’immaginazione è il vero segno d’intelligenza”. Lo status dell’opera come prodotto d’immaginazione umana viene messa in discussione: l’immaginazione produce finzione e la finzione produce una nuova realtà. Questo significa che il teatro è finzione, in quanto prodotto dell’immaginazione. Un’architettura può essere finzione, ma diventa realtà quando siamo in tanti a condividerla… come la religione, che è finzione ma diventa realtà dato che siamo in tanti a condividerla. Lo status della realtà si pone nuovamente la domanda: cosa è reale? La realtà è il prodotto della nostra immaginazione, mentre il reale esiste indipendentemente da noi”.

 

Scrivo con una foga mai avuta, cercando di non perdere nemmeno una virgola, mentre ascolto queste parole che, lo sento, mi stanno aprendo la mente in due. “Passiamo dall’Umanesimo del XIX secolo, in cui l’uomo è al centro di tutto, alla necessità di comprendere un Nuovo Umanesimo del XXI secolo, in cui l’uomo non è più necessariamente centrale. La questione ora è: cosa ne sarà di Amleto quando non ci sarà più il pianeta Terra e la vita si sarà spostata su un altro pianeta? È ovvio che Amleto sarà su un altro pianeta. Perché cosa sarebbe la nostra comunità umana senza l’eternità dei personaggi? Io sono convinto che loro possiedono una realtà eterna, non noi. L’errore durante il lockdown è stato rendere muti i personaggi: non solo non potevamo andare a teatro… era Amleto a non poter parlare con noi. Se Amleto non dice “to be or not to be”, la nostra umanità sta male. Abbiamo bisogno della voce dei poeti che mette in discussione la mediocrità della nostra esistenza. Per questo i politici hanno considerato il teatro non essenziale, durante la pandemia. Loro come uomini politici, non hanno mai raggiunto la forza di personaggi come Amleto. Loro credono d’essere personaggi su un palcoscenico internazionale… dovrebbero interrogarsi su personaggi fondamentali. Per me Pirandello è essenziale per l’eternità”.

 

Tra le lacrime di commozione per questo discorso incredibile, applaudo silenziosamente, sapendo che non mi sentirà nessuno tranne lo schermo del pc dietro al quale ho seguito. Come quando chiudo un libro che ho letto tutto d’un fiato, come quando scorrono i titoli di coda di un film o una serie che mi hanno lanciata in un’altra dimensione, come quando si chiude il sipario di uno spettacolo che mi ha commossa… anche ora sento che i miei desideri, come scrisse Francis Scott Fitzgerald, sono desideri universali, che non sono sola o isolata da nessuno. “Tu appartieni”.

 

 

Emmanuel Demarcy-Mota con la Chiave d'Oro del Primo Camerino della Pergola

 

(Foto Clara Neri)

 

 


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