di Luca Ricolfi
(da Il Sole24 Ore)
I decimali ci sommergono. Il Pil nel 2015 potrebbe crescere dello 0,9% anziché dello 0,6% o dello 0,7% precedentemente previsti. E nel 2016 potrebbe segnare un +1,5% anziché +1,4% come si pensava fino a ieri. L’indebitamento netto del 2016 potrebbe risultare del 2,3% anziché del 2,2% programmato dal Governo. Però se l’Europa si decidesse a darci il via libera, potremmo indebitarci di uno 0,2% in più. Il tasso di occupazione a settembre è diminuito dello 0,1% rispetto al mese precedente. E così si potrebbe continuare per qualche pagina.
Ad ogni decimale in più o in meno, invariabilmente, si accompagnano le consuete diagnosi di segno opposto sulle prospettive dell’Italia. Per i nemici del governo, ogni variazione, anche minima, segnala un passo indietro, un errore, un rischio. Per gli esponenti del governo, ogni decimale in più o in meno è l’ennesimo segno che «finalmente», «per la prima volta», «dopo decenni» (avete notato con che frequenza ricorrono queste parole?) le cose stanno cambiando.
In questo balletto degli zero-virgola, quel che si rischia di perdere è la percezione dell’effettivo ordine di grandezza dei cambiamenti di cui si parla e, soprattutto, dei cambiamenti che sarebbero necessari. I paesi che hanno cambiato qualcosa nei propri fondamentali non hanno spostato qualche decimale, ma hanno spostato qualche punto nelle grandezze chiave: una riduzione della spesa, o della pressione fiscale, o del deficit, comincia ad essere apprezzabile, ossia incisiva, quando è di almeno 1 punto di Pil. Meglio se di 2 o 3 (è questo il genere di cambiamenti che fece la Germania quando era il “malato d’Europa”). Una riduzione del rapporto Debito-Pil è significativa se è di diversi punti, specie se il rapporto è sopra il 100%. Così un aumento del tasso di occupazione ha un impatto tangibile sulla condizione delle famiglie se è almeno di qualche punto (il milione di posti di lavoro promessi da Berlusconi nel 2001 corrispondeva a un aumento di 2-3 punti).
Insomma, mi spiace metterla in modo così crudo, ma qui stiamo parlando di “quisquilie e pinzillacchere”, per dirla con Totò. Quando si parla di cambiamenti la cui ampiezza è prossima a quella dell’errore statistico o dell’errore di previsione, bisogna rendersi conto che la discussione può essere utilissima per capire in che direzione si sta andando (ovvero se il malato sta migliorando oppure no), ma resta sostanzialmente muta per quel che riguarda la sostanza del problema, che è quello di misurare la distanza da una piena guarigione.
Questa riserva vale in generale, ovvero per tutti i fondamentali dell’economia di un paese, ma nel caso dell’Italia vale in particolare su un punto: il tasso di occupazione. Perché è sull’occupazione, prima ancora che sulla produttività o sul numero di ore lavorate per occupato, che l’Italia è più indietro rispetto alle altre economie avanzate. E qui, sul terreno dell’occupazione, il bilancio è davvero magro. Da quando è stata introdotta la decontribuzione (1° gennaio) a tutto settembre, ossia in 9 mesi, l’occupazione è cresciuta di appena 185 mila unità e, sorprendentemente, la quota di lavoratori a tempo determinato (i “precari” che si desiderava stabilizzare) non è diminuita ma è addirittura aumentata. Nel secondo trimestre di quest’anno (ultimo dato disponibile), la quota dei precari non solo è un po’ maggiore che nel corrispondente trimestre dell’anno scorso, ma è tornata a un soffio dal suo massimo storico (14,2%), toccato durante il governo Monti.
Perché dico che il bilancio è magro? Non sono, 185 mila posti di lavoro, un risultato comunque apprezzabile? Il bilancio è magro, innanzitutto, in termini di costi e benefici. Perché i costi sono stati altissimi (circa 12 miliardi, spalmati in 3 anni, per i soli assunti nel 2015), ma i benefici occupazionali sono stati minimi. Per rendersene conto, basta confrontare l’incremento di posti nei primi 9 mesi del 2015 (vigente la decontribuzione, e con il Pil in crescita), con quello dei primi 9 mesi del 2014 (senza decontribuzione, e con il Pil in calo).
Sembra incredibile, ma la formazione di posti di lavoro è del tutto analoga: 185 mila nel 2015, 159 mila nel 2014. La differenza è trascurabile (prossima all’errore statistico), tanto più se si considera che nel 2014 l’economia andava decisamente peggio che nel 2015...
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