di Marcelle Padovani
(da Il Dubbio)
Quello che segue è l’intervento della giornalista francese del Nouvel Observateur (autrice insieme a Giovanni Falcone del libro “Cose di Cosa Nostra”), pronunciato il 23 maggio 2014 nel Palazzo di giustizia di Palermo, durante un evento organizzato dalla sezione provinciale dell’Associazione nazionale magistrati. È stato riproposto dal quotidiano Il Dubbio
Ho conosciuto Giovanni Falcone nel lontano 1983. Era novembre e si parlava sulla stampa di un magistrato di Palermo che stava interrogando un mafioso avviato al pentimento: Buscetta ovviamente. Curiosa dunque di incontrare il magistrato, chiedo l’aiuto di Luciano Violante che conoscevo dai tempi delle grandi inchieste sul terrorismo. E così ho un appuntamento a Palermo alla fine di una giornata di inverno, alle 19, in un Palazzo di Giustizia deserto. Non appena mi apre la porta del suo ufficio, Falcone mi dice però: «Non posso. Debbo andare di corsa all’Ucciardone».
Propongo di cenare insieme dopo, ma lui risponde: «Non è molto igenico». Ma, leggendo sul mio viso la delusione, aggiunge: «Possiamo ripartire assieme per Roma domattina alle 7 da Punta Raisi. Parleremo il aereo». Purtroppo non parliamo neanche in volo, perchè seduti accanto a Marco Pannella, in quel medesimo giorno venuto a Palermo per dare la tessera del Partito Radicale a Michele Greco, il ' Papa della mafia'. All’arrivo, Falcone mi assicura allora: «Non si preoccupi, la faccio chiamare a casa sua in fine mattinata».
Non ci credevo ed ero pure un po’ arrabbiata, ma verso le 12.30 un ufficiale della Guardia di Finanza mi telefona e mi fissa un appuntamento in Piazza Barberini. Da lì mi fa fare un lungo giro della città in auto, probabilmente per confondermi. Infine, arriviamo in una caserma dove lui spinge una porta e cosa vedo? Falcone seduto a un tavolo imbandito dinanzi a un camino col fuoco acceso. Straordinario.
Forse anche rocambolesco. Ci siamo fermati lì a parlare di mafia per un paio d’ore, ma soprattutto credo che sia allora nata un’amicizia e una fiducia che verranno confermate col passare del tempo. Da quel momento lo consulterò sempre per i miei articoli sulla mafia, o per telefono o andando a trovarlo a Palermo, e soprattutto gli spedirò questi stessi articoli perché potesse giudicare la mia affidabilità.
La fiducia divenne tale che, un giorno di febbraio del 1991, mi chiamò da Palermo per dirmi che sarebbe stato a Roma la mattina dopo, che potevamo pranzare insieme, mi annunciò che lasciava la Procura di Palermo per disperazione ( «Mi danno da risolvere i casi di furto di elettricità allo Zen» ) e che aveva accettato la proposta del ministro della Giustizia di essere il direttore generale degli affari penali.
In quel momento non aveva ancora iniziato il suo nuovo lavoro. Non aveva neanche un ufficio romano, perchè stavano facendo dei lavori nella sua stanza; dunque era abbastanza libero di disporre del suo tempo. E allora ebbi la presenza di spirito di mettere sul tappeto l’idea di un libro sulla mafia. Ne avevamo spesso parlato, ma sempre rinviando il momento di mettere quel progetto in cantiere per via delle tensioni, dei problemi, degli ostracismi che incontrava nel suo lavoro.
Quel momento però era giunto. Il giorno dopo gli spedii una scaletta. Cinque giorni dopo l’editore francese era a Roma con un contratto pronto per essere firmato. Una serie di interviste a ora di pranzo, credo 22 o 23, sempre in ristoranti diversi che sceglieva lui all’ultimo momento e a fine luglio, con un malloppo di appunti alto 20 centimetri, partii per l’Alto Adige, dove passavo solitamente le vacanze, decisa a scrivere il libro. A fine agosto Falcone mi raggiunse, lesse il manoscritto in francese, fece poche correzioni, e così nacque ' Cose di Cosa nostra. Fu lui a scegliere il titolo.
Se vi ho raccontato questi aneddoti è soltanto per dirvi del rapporto di grande fiducia che si era stabilito tra di noi. Al punto da confidarmi, anche in seguito, il suo senso di solitudine, di isolamento rispetto ai colleghi, al Csm, alla politica e ai media e che lo inseguì fino alla morte. Ancora nel dicembre 1991, sentendosi di nuovo nel mirino, chiese a Gerardo Chiaromonte e a me di fare ognuno una breve intervista a sua difesa, poi pubblicate sull’Espresso... Credo basti a dare la misura del suo isolamento.
Veniamo però al tema stabilito per questo incontro: l’eredità di Giovanni Falcone, vista da una giornalista. Non da una specialista del sistema giudiziario ma da una giornalista, per di più straniera. Cosa penserebbe oggi Falcone? Nessuno può dirlo. Ma io credo che Falcone potrebbe rallegrarsi nel vedere che la magistratura italiana è stata ed è ancora la colonna vertebrale della società italiana, la garante della democrazia. Spesso finanche l’unico Stato visibile agli occhi dei cittadini.
Si rallegrerebbe, Falcone, della realizzazione di alcune sue grandi intuizioni: la Procura nazionale e le procure distrettuali antimafia; il migliorato coordinamento delle forze di polizia; una legislazione antimafia efficiente e originale; particolarmente con l’introduzione del delitto di associazione mafiosa. Una varietà di strumenti invidiata da chi in altri Paesi è incaricato della repressione di fenomeni di criminalità grave. Mi ricordo una seduta del Parlamento europeo alla quale fui invitata, che si concluse con la raccomandazione ai governi di continuare a far loro gran parte della legislazione antimafia italiana.
Si rallegrerebbe, Falcone, della straordinaria efficacia della repressione antimafia: con il Gotha di Cosa nostra praticamente tutto in carcere, con la forte destabilizzazione dei Casalesi e col ridimensionamento enorme della Sacra Corona Unita. Un’efficacia complessiva che fa sì che le forze della repressione italiane, non esito a dirlo perchè l’ho sentito a più riprese nelle varie cancellerie europee e nelle varie associazioni di magistrati, siano considerate come le ' migliori del mondo'. Oggi i poliziotti italiani si muovono nei vari commissariati e i magistrati nelle varie procure europee come se fossero a casa loro.
Straordinario scenario, impensabile vent’anni fa, quando Falcone aveva al massimo tre o quattro interlocutori privilegiati, come Rudolph Giuliani e Louis Freeh negli Stati Uniti o Michel Debacq in Francia. Certo la situazione non è perfetta. Vi sono molte cose da fare, a partire dalla ratifica di importanti convenzioni internazionali sull’assistenza giudiziaria e sulla corruzione. Ma l’impostazione generale è buona ed ha ragione Piero Grasso a sostenere: «Abbiamo inventato il veleno, ma anche l’antidoto» .
L’aver qui citato Piero Grasso mi invita a cercare di dare un nome a quelli che Falcone potrebbe oggi considerare i suoi eredi. Ma non si tratta di un elenco dei buoni e dei cattivi. Semplicemente una lista soggettiva, da me stilata e certo non esaustiva. C’è ovviamente in questa lista Grasso, il procuratore nazionale Franco Roberti, ma anche chi ha operato alla Procura di Napoli, Federico Cafiero de Raho e Giovanni Melillo, oppure l’attuale procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. Ma so perfettamente quanto quest’elenco sia restrittivo e quanto l’eredità anche ' fisica' di Falcone sia numerosa.
In che senso invece Giovanni Falcone potrebbe dirsipreoccupato o persino spaesato oggi? Per gli errori e per gli sprechi sicuramente. Per la sottovalutazione e il dilettantismo col quale spesso la politica affronta il problema della lotta alla mafia. A che serve che i politici esaltino la cattura dei latitanti, la carcerazione dei capomafia siciliani o campani, quando si sa che per un mafioso arrestato ce ne sono dieci pronti a prendere il suo posto?
Perché quello che conta non sono soltanto i capi, ma le strutture portanti, le condizioni del radicamento dei grandi gruppi criminali nel territorio, le pratiche consensuali tipiche delle organizzazioni mafiose. Ci si dimentica, per esempio, che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti. E fin quando lo Stato non saprà esso stesso diventare un modello vincente, le mafie gli contenderanno il consenso popolare.
Se si aggiunge, come lo dimostrano le operazioni congiunte tra la Procura di Napoli e quella di Roma nel gennaio e nel febbraio di quest’anno, che le mafie dimostrano oggi una particolare adattabilità all’evoluzione del capitalismo, fornendo alle imprese mille servizi, oltre che soldi e pace sociale, e diventando dei problem solvers,delle stampelle per economie in difficoltà, se si aggiunge dunque questa recente evoluzione del mondo mafioso, c’è da essere scettici sui successi dell’Antimafia legati alla sola repressione. Dinanzi alla probabile mutazione genetica del crimine organizzato, ci vorrebbe ben altro per bloccare la sua omologazione alle forme più rapaci del capitalismo moderno.
Questo per dire che probabilmente Falcone oggi solleciterebbe il mondo politico alla prevenzione, al controllo del modo in cui si costituiscono le società, si comprano e si vendono le imprese, i commerci, i ristoranti, ovvero dei modi nei quali le aziende smaltiscono i rifiuti o accedono ai servizi finanziari.
Che un consigliere di Roma-Trastevere mi abbia confermato che il 70% dei negozi, commerci, ristoranti del centro storico della Capitale sono in mano alle mafie, non può che lasciare sconcertati. Questo per dire che senza dubbio Falcone avrebbe preferito, oggi come ieri, uno Stato meno intermittente e dilettantesco nel suo impegno. Meno incapace di affrontare il problema numero uno di questa società, che si chiama corruzione. E sappiamo benissimo che la corruzione è la madre di tutte le mafie.
Ma vorrei avvicinarmi alla conclusione e non posso, anche se so che provocherò qualche polemica, non affrontare l’evoluzione del ruolo del magistrato antimafia da vent’anni a questa parte. Se ieri Falcone era davvero un magistrato solitario, oggi parecchi suoi colleghi, pur sostenendo di essere come lui isolati, si rivelano invece molto più vicini alla politica e condizionati dai mass media. Si sono spesso offerti, infatti, alla mediatizzazione estrema dei propri comportamenti e stati d’animo. Si sono lasciati prendere per mano dal protagonismo e hanno spesso contribuito a costruire un’autorappresentazione sacrificale del proprio ruolo.
Diventando, in pratica, quelli che mi sono permessa di definire i “nuovi protagonisti dell’Antimafia”. Alimentando negli stessi media - cui offrono se stessi - la tendenza a ricamare e a supporre, quando non a costruire trame e complotti o retroscena che spesso non hanno che un rapporto lontano con la realtà. Come se in mancanza di materia prima ( oggi che sappiamo tutto o quasi tutto delle mafie, dei loro meccanismi di reclutamento, dei loro ' valori', della loro organizzazione e delle loro regole) loro non riuscissero a rimanere in prima pagina se non scivolando nella fantasia.
Concludo evocando dunque l’abisso che secondo me esiste fra i ' protagonisti dell’Antimafia' di questo tipo e la persona di Giovanni Falcone. Lui che era un magistrato scrupoloso e pragmatico, assolutamente non ideologico, attaccato alla verifica di ogni dettaglio, per esempio delle confidenze dei pentiti, lui che si vantava di non aver mai dovuto rimettere in libertà un suo arrestato, probabilmente si stupirebbe oggi di sentir parlare della cosiddetta ' trattativa'. La mia convinzione - ma qui interviene la mia soggettività - è che Falcone non avrebbe mai avviato un’inchiesta ed un processo di questo genere.
E che soprattutto non avrebbe mai considerato la ' trattativa' come un reato in sè. Si sentirebbe dunque più vicino alle tesi di un giurista come Giovanni Fiandaca, convinto com’era che la mafia si combatte anche infiltrandola, anche cedendogli delle informazioni per ottenerne altre o per evitare degli assassinii, come si fa in tutto il mondo quando si lotta contro il crimine organizzato.
Insomma, credo che avrebbe pensato a perseguire gli eventuali delitti concreti dei quali potrebbero essersi macchiati coloro che sono accusati oggi di essere dei ' trattativisti', ma che non avrebbe incoronato la trattativa come delitto in sè. Ma qui, ripeto, interviene ovviamente la mia soggettività. (*)
(*) da Il Dubbio