Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

22/11/24 ore

Vi racconto Sarah Hegaz. Il suicidio dell’attivista Lgbt egiziana



di Yuri Guaiana* 

(da Affari Internazionali)

 

Immaginate di andare al concerto della vostra band preferita. Immaginate l’eccitamento di poter finalmente vedere dal vivo coloro che interpretano così bene il vostro sentire più profondo: vi preparate e organizzate con gli amici che condividono la stessa passione.

 

Decidete di portare il simbolo che più vi rappresenta, quella bandiera arcobaleno che custodite gelosamente nel posto più segreto che conoscete per evitare che venga scoperta. In mezzo a tutta quella gente, non rischio di sicuro e potrò finalmente dire al mondo che esisto, deve aver pensato Sarah Hegazy quando ha iniziato a sventolare quella bandiera al concerto della band libanese indie rock, Mashrou Leila al Cairo nel settembre 2017.

 

D’altronde, nell’agosto del 2010, il frontman della band, Hamed Sinno, è gay e aveva già mostrato sul palco del Byblos Festival, in Libano, una bandiera arcobaleno che gli era stata consegnata da un fan.

 

Immaginatevi all’apice della gioia in quel momento magico di affermazione di sé improvvisamente infranto bruscamente da un incubo liberticida che per le persone Lgbt+ in Egitto e in tanti altri Paesi della regione è una tragica realtà quotidiana: Sarah Hegazy viene arrestata con l’accusa di “promuovere la devianza sessuale e la dissolutezza” e scatta una brutale caccia alle streghe conto le persone che le autorità sospettano di appartenere alla comunità Lgbt+.

 

Verranno arrestate circa 59 persone, ma Sarah rimarrà l’unica donna vittima della più grande repressione contro la comunità Lgbt+ del Paese nella storia recente. Molte di loro sono state sottoposte a un processo sommario e condannate. Attivisti dell’Egitto, del Medio Oriente e del Nord Africa hanno iniziato una campagna internazionale con All Out.

 

È stato “un atto di solidarietà per tutti coloro che sono oppressi”, avrebbe detto più tardi in un’intervista per Npr. “Eravamo orgogliosi di tenere la bandiera. Non avremmo mai immaginato la reazione della società e dello Stato egiziano. Per loro ero una criminale, una persona che cercava di distruggere la struttura morale della società”.

 

“Mi sono dichiarata in una società che odia tutto ciò che è diverso dalla norma”, ha detto a Deutsche Welle in un’intervista separata.

 

Le torture in carcere

 

Sarah rimarrà in carcere per tre mesi prima di essere rilasciata su cauzione. Racconterà poi delle violenze e delle torture fisiche e psicologiche subite, anche dalle altre detenute, che la segneranno profondamente.

 

“Mentre mi arrestavano, in casa mia, davanti alla mia famiglia, un agente mi ha chiesto cosa pensavo della religione, perché non indossassi il velo e se fossi vergine o no. L’agente mi ha bendato nell’auto che mi ha portato in un posto che non dovevo riconoscere. 

 

Sono stata portata giù da una scala, senza sapere dove sarei arrivata. Ho sentito soltanto una voce di uomo dire: “Portala da al-basha”, poi ho avvertito un odore nauseabondo, e ho sentito gemiti di dolore. Mi hanno fatto sedere su una sedia, con le mani legate e un pezzo di stoffa in bocca per motivi che non riuscivo a capire. 

 

Non vedevo nessuno, nessuno mi rivolgeva la parola. Un attimo dopo, il mio corpo si è contorto dalle convulsioni e ho perso conoscenza. Non so per quanto tempo sono rimasta esanime. Era una scossa elettrica. Sono stata torturata con l’elettricità. Hanno minacciato di fare del male a mia madre, se ne avessi parlato a qualcuno. Mia madre che poi è morta poco dopo la mia partenza per il Canada”, racconta Sarah stessa al giornale indipendente egiziano Mada Masr nel settembre 2018, tradotto oggi da Repubblica.

 

Ma l’incubo non era ancora finito. Fuori dal carcere venne presa di mira per il suo gesto, per il suo orientamento sessuale e per il fatto di essere atea. L’omofobia in Egitto è fortissima, come dimostra anche la vicenda dell’arresto di Patrick Zaki, lo studente egiziano che studia all’università di Bologna, fermato al ritorno nel suo Paese d’origine e da allora detenuto. Non esiste una legge che criminalizza esplicitamente gay, lesbiche, bisessuali e transessuali ma denunce e arresti arrivano per aver tenuto “comportamenti immorali”.

 

La pressione è talmente insostenibile che Sarah è costretta a scappare dall’Egitto e fare domanda di protezione internazionale in Canada.

 

La prigione mi ha ucciso. Mi ha distrutto“, ha detto dopo essere scappata. Le viene concesso asilo politico e la libertà che Sarah scopre la userà per continuare a difendere le persone Lgbt+ in Egitto. Lo farà per tre anni prima di decidere di togliersi la vita. Aveva solo 30 anni e aveva tentato il suicidio già altre volte.

 

Il messaggio prima di morire

 

Prima di morire ha lasciato un biglietto con su scritto: “Ho cercato di sopravvivere, ma non ce l’ho fatta“. Ha lasciato un biglietto: “Ai miei fratelli – ho tentato di trovare riscatto e non ci sono riuscita, perdonatemi. Ai miei amici – l’esperienza è stata dura e sono troppo debole per resistere. Al mondo – sei stato estremamente crudele, ma io perdono”.

 

Lascia un messaggio anche nella sua ultima foto pubblicata sui social, distesa su un prato in una giornata di sole: “Il cielo è più bello della terra! E io voglio il cielo e non la terra”.

Per alcuni Sarah non avrebbe diritto nemmeno al perdono divino per il suo orientamento sessuale perché atea. Dopo essere stata ripudiata da viva non la lasciano in pace nemmeno da morta.

 

Sempre nel 2018 scriveva Mada Masr: “Chiunque sia diverso, chiunque non sia un musulmano sunnita eterosessuale maschio che sostiene il regime al potere è considerato perseguibile, impuro o morto. La società ha applaudito il regime quando sono stata arrestata con Ahmed Alla, un amico che come me ha perso tutto per aver sventolato la bandiera arcobaleno.

 

I Fratelli Musulmani, i salafiti e gli estremisti alla fine si sono detti d’accordo con il potere dominante: hanno assunto una medesima posizione nei nostri riguardi. Hanno convenuto sulla violenza, sull’odio, sul pregiudizio e sulla persecuzione. Forse, sono le due facce di una stessa medaglia. Non abbiamo trovato una mano tesa ad aiutarci tranne che nella società civile, che ha svolto il suo lavoro malgrado le restrizioni opprimenti”.

 

Oggi, però, il nome e il sorriso di Sarah sulla bandiera arcobaleno stanno rimbalzando sui social media, anche in Italia, con l’hashtag #RaiseTheFlagForSarah.

 

* Yuri Guaiana è presidente dell’Associazione Radicale “Certi Diritti” e Senior Campaign Manager di All Out. (Twitter: @yurigu)

 

(da Affari Internazionali)

 

 


Aggiungi commento