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26/12/24 ore

Vernissage, la fine


  • Giovanni Lauricella

Alcuni anni fa recensii una mostra di Dino Ignani intitolata “Vernissage” dove venivano riportati i momenti salienti delle inaugurazioni delle mostre che fino a pochi mesi fa, prima del virus, occupavano il palcoscenico romano.

 

Ricordi solenni che spesso si concludevano con delle festicciole dove il buffet faceva da attrazione principale al punto da togliere alla mostra che lo ospitava buona parte dell’attenzione dovuta. Cosa che l’acuto obiettivo di Dino Ignani ha saputo cogliere con molta sagacia che in particolare trattava il tema del rapporto dello spettatore con l’opera d’arte.

 

Infatti, la foto ricorrente è quella di un visitatore di spalle nel momento in cui osserva un quadro. Se poi la vogliamo mettere sul gossip, l’alloro delle foto di eventi va senza dubbio a Umberto Pizzi, anch’esso recensito quando ebbe una personale all’Auditorium Parco della Musica, un vero cacciatore di scoop che metteva personaggi famosi nel ridicolo con immagini caricaturali e con involontarie pose grottesche che il demoniaco fotografo coglie con un semplice scatto: un mago davvero insuperabile.

 

 Se vedi le foto di Umberto Pizzi, pensi che quell’evento sia stato veramente mostruoso come un film horror degno di Halloween. Infatti, mi perdoni Roberto D’Agostino, il successo di Dagospia deve molto alle sue incredibili foto che costituivano l’aspetto più accattivante di questo giornale, special modo la rubrica Cafonal uno tra i migliori spassi che ci possono essere per un lettore. Grande contributo di cui ha beneficiato anche un altro prestigioso giornale, Lettera 43, da cui riporto alcune parole di Pizzi quando fu intervistato in un illuminante articolo sulla Grande bellezza di Paolo Sorrentino.

 


 

Anche se circoscrivibile solo alla situazione romana, estrabolo il suo giudizio perché dà il polso di quello che è cambiato in questo 2020:  Le bocche ingolfate di cibo, i sorrisi dilatati dal silicone. I corpi offerti al ludibrio dell’obiettivo, che santifica il potere svelandone i vizi e le deformità. Roma godona e Roma “poraccia”.

 

Per più di un decennio Umberto Pizzi l’ha raccontata così, la capitale d’Italia: una carrellata di mostri cui l’occhio del fotografo non risparmiava nulla: primi piani, flash sparati ad altezza viso, ritratti scattati nelle pose più oscene. ROMA? NON E’ COSÌ, È MOLTO PEGGIO. E forse è anche un po’ per la crudezza con cui ha immortalato il disfacimento della città eterna che il re dei paparazzi storce il naso pensando appunto alla Grande Bellezza, il film di Paolo Sorrentino premiato agli Oscar.

 

 

Sorrentino l’ha addolcita per renderla appetibile al sogno, ma la Roma delle feste, del potere, è molto più rozza, aggressiva, rifatta.Sì, i vernissage, e poi anche i finissage, sono stati per anni la strategia di marketing delle gallerie e dei musei, come un propellente culturale: uno che ne ha fatto un vero e proprio teatro era Andy Warhol, che combinava l’arte con appuntamenti hot, droga e business di alta finanza: un vero e proprio stregone dell’evento social.

 

Da come abbiamo constatato dal primo lockdown, tutto è cambiato, e non ci sono più quegli appuntamenti che ti facevano correre attraverso la città per esserci. Così, insieme alle persone realmente interessanti e importanti si mescolavano strani personaggi, anonimi sfaccendati che sgomitavano affannosamente per mettersi in vista.

 


 

Chi correva di più erano i presenzialisti che spesso non erano quello che pretendevano di essere, così gli appuntamenti si affollavano di personaggi stravaganti: i piacioni, i falsi vip, i finti collezionisti, i professionisti disperati in cerca di clienti, le attricette in cerca di un invito a cena e tutti gli “splendidi” personaggi che compongono la grottesca fauna romana, abili nelle moine teatrali e nelle pose che rendevano questi appuntamenti delle sagre del divertimento. 

 

Se le gallerie e i musei, che reputavo già a suo tempo luoghi artefatti perché si riempivano solo quando c’erano i vernissage, potete immaginare che cosa possono essere diventati ora che i visitatori vi accedono contingentati e mascherinati: ampi spazi vuoti che non vedono l’afflusso, il successo e gli incassi sperati. Una sensazione di angoscioso straniamento che si aggiunge a quella diffusa nei centri storici delle metropoli deprivate da numerose attrattive, con negozi chiusi e poca vera allegria, nonostante gli assembramenti occasionali di manifestanti per varie cause o d’incalliti fruitori di happy hour.

 


 

Ma per tornare alle sedi espositive, mi viene un dubbio che vi lancio come provocazione costruttiva: non saranno più godibili, per i veri intenditori, senza l’assillo delle visite guidate, quelle poche o tante mostre coraggiosamente in corso, ora che le allegre brigate motivate dalle pizzette sono sparite?

 

Fortunatamente non tutti i vernissage sono stati come li ho descritti, ho solo voluto calcare la mano su una esagerata visione felliniana, ma niente paura: “finirà tutto bene”, come dice Derek Mahon (Belfast 1941 – Cork 2020) nella poesia il cui titolo, che è anche l’ultimo verso, è diventato il mantra del nostro lockdown: frase che non si sa se abbia portato l’auspicio desiderato o il suo contrario … 

 


 

Ma che volete, in questa disastrata cultura che tra sempre maggiori difficoltà annaspa, speriamo davvero di cavarcela specie adesso che abbiamo scoperto che oltre ai gloriosi infermieri degli ospedali anche il medico di base potrebbe esserci d’aiuto per avere ancora, con la mascherina e il dovuto distanziamento e lavandoci le mani, tanti nuovi vernissage.

 

 


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