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22/11/24 ore

La morte di Gallinari. Tragedie e sogni di un decennio poco formidabile e molto cupo



È stato colpito da un malore improvviso mentre usciva con la sua auto dal garage della sua abitazione, a Reggio Emilia, dove scontava gli arresti domiciliari. È morto così, lunedì 15 gennaio, Prospero Gallinari, 62 anni, condannato all'ergastolo per il rapimento di Aldo Moro. L'ex brigatista rosso lavorava in una piccola azienda reggiana come autista e aveva da poco ottenuto la possibilità di lasciare la sua abitazione anche il sabato pomeriggio per qualche ora.

 

Dell'ex terrorista si parlò per anni come dell'esecutore materiale dell'omicidio del leader democristiano; solo in seguito Mario Moretti lo scagionò assumendosene la responsabilità. Quello che appare certo è che Gallinari avesse avuto un ruolo di primo piano nella trascrizione delle lettere di Moro e nella gestione quotidiana del prigioniero, una “funzione sicuramente esecutiva, da comprimario affidabile”, come spiega Vladimiro Satta, autore di saggi e consulente della 'Commissione Stragi'.

 

Gallinari fece parte degli irriducibili del terrorismo fino al 23 ottobre 1988, data in cui firmò, assieme ad altri detenuti, il documento cui  si considerava finita “la lotta armata contro lo Stato”e si decretava la sua sconfitta.

 

Di seguito pubblichiamo ampi stralci del dibattito che si tenne domenica 21 settembre 1997, in occasione dell'ottavo appuntamento annuale della mostra della   piccola editoria ("Editori in mostra"), allestita nel castello di Belgioiaso (Pavia), nell'ambito di   una serie di incontri sul tema della  "bella politica", il dibattilo dal titolo "E i nostri sogni dove li avete buttati?". Il testo del Forum fu pubblicato sul numero 56/57 di Quaderni Radicali (gennaio 1998).

 

Dedicato ai problemi concernenti lotta armata e indulto vi parteciparono Geraldina Colotti, l'ex br  Prospero Gallinari, Luciano Lanza, il presidente della commissione Giustizia della  Camera on. Giuliano Pisapia e Geppy Rippa, direttore di «Quaderni  Radicali». Luigi Oreste Rintallo ne curò la sintesi anche con una sua introduzione.

 

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Belgioioso, dibattito su lotta armata e indulto

Tragedie e sogni di un decennio poco formidabile e molto cupo (21 settembre 1997)

 

Considerata la rilevanza dell'argomento trattato e il coinvolgimento che ha comportato per  intere generazioni, ne pubblichiamo di seguito ampi stralci ricavati dalle cassette procurate da Guido Spaini, organizzatore della manifestazione "Parole nel tempo".

 

Oltre che essere una occasione per fare il punto sulle ipotesi  in  esame per riequilibrare situazioni processuali grevemente inficiate dalla legislazione di emergenza emanata durante gli "anni di piombo", la discussione ha anche rappesentato un momento di confronto - talora aspro fra le opinioni di chi aderì alla lotta armata e i parenti di coloro che ne furono vittime.

 

Sulla questione «Quaderni  Radicali» ha già avuto modo di esprimersi  nel  n.  48/49  (1995),  dove si  è  pubblicata  una ricostruzione dei delitto  Tobagi, per il quale  si può dire  l'indulto è stato subito operante, poiché gli assassini del giornalista  di  fatto  non  scontarono  neppure  la condanna, godendo da  subito  della  libertà provvisoria. II  testo  ero  preceduto  da un gruppo di articoli sulla vocazione "perdonista" che attraversava e tuttora attraversa un po' tutti gli schieramenti politici.

 

Già allora avvertivamo come il comportamento dei mass media, superficialmente proni alle "verità" di pentiti e dissociati del partito armato, spargesse una patina non solo obliante,  ma persino deformarne sui fatti accaduti. E paventavamo inoltre "il  rischio che il terrorismo, dopo  essere stato 'usato' per finalità ad esso esterne...  torni, nel suo rovesci della dissociazione e del ravvedimento, nuovamente comodo ai  disegni dei nemici della democrazia e della verità".

 

Il dibattito di Belgioioso non ha fugato del tutto quesito preoccupazione. Alcune rigidità hanno, per così dire, ostruito l'auspicato processo di chiarimento sui motivi che condussero alla militanza terroristica, come pure la riflessione compiuta sulle conseguenze di quella scelta.

 

Nondimeno, esso è stato utile per evidenziare che ogni eventuale intervento in favore della riduzione delle pene, non può non essere accompagnato da  un più complesso e  approfondito esame sui guasti introdotti a suo tempo dalle procedure emergenziali nella nostra giurisprudenza.

 

Dalla lesione dei diritti di difesa,  al sostanziale venir meno del principio di non colpevolezza (art. 27  Cost.); dai danni provocati alla morale comune con la legislazione premiale, all'insidia nei confronti della capacità di indagine generata dal pentitismo: tutte queste deturpazioni del diritto hanno  origine proprio nel lungo decennio, ben poco formidabile e molto cupo, compreso fra la metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Se, come si spera, l'indulto (e non purtroppo l’amnistia) in discussione nel Parlamento darà l'esca per una complessiva revisione degli interventi messi in opera in quegli anni ben vengano gli sforzi in questa direzione.

 

Qualora, invece, il tutto si riducesse a una frettolosa quanto indistinta cancellazione del passato, allora i timori e la comprensibile animosità delle persone, che hanno perduto negli attentati i loro cari, avranno più di una ragione per manifestarsi. Significherebbe, infatti, che la lezione della storia non è servita a nulla e ch si lasciano riaffiorare le premesse del dramma. (L.O.R.)

 

 

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Il ruolo del Parlamento nel ricomporre situazioni che hanno visto coinvolti tanti giovani nella tragedia degli "anni di piombo", coi suoi effetti distorsivi sulla nostra giurisprudenza.

 

Pisapia – Questo dibattito giunge in un momento particolarmente delicato rispetto all'iter legislativo del provvedimento di  indulto. Circa la reale volontà di arrivare a una definizione, in un senso come nell'altro, su questo problema esprimo un profondo pessimismo.

 

È da ormai quattro legislature che si discute dell'opportunità o meno di  concedere uno sconto di pena ai condannali per i reati previsti dalle leggi anti-terrorismo, ma ancora non s  intravede una conclusione.

 

A fine luglio, dopo oltre nove mesi di confronto, la commissione Giustizia ha infine approvato un testo base da proporre poi all'aula. Il testo riprende tutti i punti in comune dei cinque progetti di legge depositati nella primavera del '96: due di Alleanza Nazionale, uno del Pds, uno dei Verdi e uno di Rifondazione comunista. Da subito, in commissione si era deciso all'unanimità di pervenire in tempi relativamente brevi a un esame delle proposte. Questo perché ci si era espressi in favore di una scelta di fondo, secondo la quale il cammino delle riforme nel campo della giustizia non doveva seguire la logica dell'emergenza ma, al contrario, puntasse proprio ad eliminare tutti i guasti creati dalla legislazione d'emergenza, cosi da arrivare quindi a modifiche strutturali capaci di conciliare efficienza e garanzie.

 

Al di là degli schieramenti, è infatti convinzione comune che da trent'anni il cammino della giustizia nel nostro paese è stato assolutamente schizofrenico. Si andava da momenti in cui – a partire da casi eclatanti che colpivano la fantasia, più che la razionalità dell'opinione pubblica - prevaleva  una eccessiva tendenza a linciare i beni della collettività, ad altri in cui il garantismo aveva una certa valutazione positiva anche a scapito della giustizia. Per anni  non è stato possibile conciliare tutela dei singoli e tutela della sicurezza collettiva: la lotta forte alle illegalità senza arretrare sul piano dei diritti individuali.

 

Gli interventi di riforma non sono mancati: dalla depenalizzazione dei reati minori al superamento del carcere come unica pena prevista dal codice, sostituito dall'obbligo a lavori   socialmente  utili o dalla detenzione domiciliare. Nel contempo abbiamo approvato nuove leggi che hanno rafforzato i diritti di chi si trova coinvolto in un processo: tipico il caso della revisione dell'art. 513 cpp., cui hanno fatto seguito le note polemiche. È dunque in questo ambito complessivo, che  va fatta rientrare la decisione di occuparsi dei guasti a livello di pena prodotti durame gli "anni di piombo".

 

La proposta unitaria del testo approvato in commissione prevede il condono di parte della pena, sulla base di un principio preciso. Cioè il riequilibrio delle pene in eccesso erogate in quegli anni e dovute all'immissione di aggravanti particolari, come ad esempio la finalità eversiva attribuita a certi reati.

 

Il che ha generato diseguaglianze  di  trattamento davvero eclatanti: ad azioni identiche, corrispondevano condanne diverse soltanto perché le intenzioni che le avevano originate erano diverse. In alcuni casi, al di  là della volontà dei giudici, è stato cosi inevitabile giungere persino alla condanna dell'ergastolo, derivante dal cumulo di  aggravanti in assenza del computo delle attenuanti.

 

Se si aggiunge che alcuni di questi condannati erano stati esclusi dagli ultimi provvedimenti di condono e che, ormai, da parte di tutti si riconosceva che quel periodo storico-politico era definitivamente cessato, né vi era il rischio di un ritorno del fenomeno terroristico, risulta evidente per il  legislatore che vuole uscire dall'emergenza la necessità di porre fine alla differenza di trattamento prima descritta.

 

Voglio essere chiaro: l'indulto serve solo a eliminare le diseguaglianze prodotte in quegli anni; non vuole essere altro. Esso non esprime alcun giudizio politico, che spetta al paese dare, ma si limita a trasmettere un segnale giuridico e istituzionale. Ciononostante il testo ha suscitato molte polemiche, alcune delle quali strumentali. Ai familiari delle vittime che hanno espresso la loro contrarietà, va rivolta la massima comprensione: ed è per questo che prevedo di incontrarli per chiarire meglio i limiti dell'indulto.

 

 

Collettività e vittime della lotta armata sono due dei soggetti interessati dalle discussioni sulle ipotesi di indulto. Il terzo è quello dei condannati per terrorismo, qui rappresentato dall'ex br Prospero Gallinari, che ha spiegato quali siano le sue aspettative.

 

Gallinari - L'attesa non nasce oggi, ma dal percorso di una battaglia politica che dura da decenni. L'aspetto legislativo-giuridico indicato dall'on. Pisapia è importante, ma non è quello che più preme al mio modo di sentire e di interpretare la contraddizione  insita in quel periodo storico. A quell'argomento, si unisce un'aspettativa che in qualche modo lo domina: come affrontare cioè quella contraddizione. Lo si può fare in modo "umanistico", pensando  alle persone che hanno vissuto 20-25 anni di carcere: ricordo che il primo detenuto per fatti di lotta armata. Maurizio Ferrari, è in prigione dal 1974 senza avere morti sulla coscienza.

 

Oppure, si può considerare un aspetto molto più coinvolgente, al  di là di qualche centinaio di carcerati o gli oltre cinquantamila individui che sono stati inquisiti. Riguarda tutto il popolo italiano, impegnato in una battaglia che non sia solo una battaglia di libertà per far uscire dalle galere quelle persone, ma una battaglia di verità. Quest'ultima non deve portare necessariamente a esprimere giudizi univoci; perché in una storia che ha attraversato tanti uomini e donne di questo paese i giudizi possono ben essere discordanti, differenziati e perfino antagonisti fra di loro.

 

Una battaglia di verità che deve portare ogni singolo cittadino alle proprie responsabilità. Prima ho sentito usare le parole terroristi e terrorismo. Sicuramente non voglio dire che non ci sia stato terrorismo in Italia: come sostenne l’on. Gualtieri nella commissione Stragi di due legislature fa, c'è stato un terrorismo stabilizzante dello Stato fatto con le stragi. La sinistra antagonista ha fatto invece lotta armata, che continuo a considerare qualcosa di diverso dal terrorismo. Non ha sparato nel mucchio, né ha messo bombe: ha attaccato le istituzioni e gli uomini che le rappresentavano. Battersi, allora, per la verità significa ricostruire un percorso storico e porsi una domanda: perché 50.000 persone - non  pregiudicate, ma lavoratori o studenti – negli anni '70 hanno fatto certe scelte e praticato quel tipo di lotta.

 

In base a una serie di loro convinzioni, fatte di speranze e anche ideali, essi hanno sfidato un modo di vivere la realtà, nella quale il movimento nato dal '68 si poneva problemi molto concreti ma anche molto generali. Concreti perché intervenivano sulle condizioni di sfruttamento o sulla eguaglianza: problematiche che hanno percorso tutto intero il paese. E portatori di un dato essenziale, cioè il rifiuto dello stato di cose presente; dentro questo rifiuto c'è un confronto e uno scontro di interessi differenziati e antagonisti fra loro. Un confronto fra posizioni e idee politiche, nel cui ambito va dunque inserita anche la lotta armata: il movimento degli anni '60-70 non è la lotta armata, ma certamente l'ha compresa.

 

Il movimento nel suo complesso si è misurato con una tematica che definire un grande sogno è riduttivo. A quel tempo, un'intera generazione si è posta il problema del potere, ma non come sviluppo di una strategia politica così come accadde in passato. Contestare i ritmi di lavoro o la gerarchia sui luoghi di lavoro e nelle scuole è un problema di potere. Il potere è stato messo  in discussione e ciò è avvenuto entro un contesto più generale, dove il pensiero comunista sconvolgeva completamente:  un pensiero forte, di grande forza anche simbolica se pensiamo agli episodi salienti di quegli anni, alla lotta di liberazione dei popoli del Terzo mondo o alla rivendicazione  di  diritti oggi quasi impensabili stante le logiche ragionieristiche che contraddistingue anche l'attuale governo di centro-sinistra.

 

In quel contesto di scontro avvennero allora dei fatti, che come italiani abbiamo fatto di tutto per dimenticare. Uno di essi è lo scoppio della bomba di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969. Secondo i giornali, primi accusati erano gli anarchici o chissà quale sovversivismo; per il Pci e la sinistra si è trattato di un avvertimento che ha subito funzionato. Qualcuno,  negli apparati dello Stato, ha dettato le regole  del gioco e, infatti, da quel momento sinistra istituzionale e sindacato hanno fatto rientrare lo scontro. Consiglio di vedere le date in cui si sono firmati i più grossi contratti di lavoro: corrispondono quasi sempre a episodi di "stabilizzazione", nel senso che  dicevo prima.

 

Di fronte a questa situazione, parte della sinistra antagonista si è interrogata su come proseguire lo scontro nei termini che il movimento aveva indicato. I militanti che aderirono alle Br, hanno compiuto la loro scelta. Sbagliata? Giusta? Il dato di fatto è che siamo stati sconfitti: da materialista, ne prendo le conseguenze. Tuttavia, al di là della validità o meno della scelta, bisogna dare un  giudizio sugli avvenimenti e sulla storia di quegli anni.

 

La contraddizione che ostacola l'iter dell'indulto non è umanistica, non  si tratta di essere "buoni" verso persone che non sono più pericolose. La contraddizione è politica, perché affrontare questo problema significa interrogarsi sulla storia. Vuol dire che ciascuno dovrà porsi la domanda: io dov'ero. Per quanto mi riguarda, ero all'opposizione, ho fatto delle scelte e per questo ho scontato diciotto anni di galera. Ero altrove rispetto alla classe politica che poi si è processata, altrove e contro Andreotti che presiedeva i governi di unità nazionale mentre la mafia controllava parte del paese.

 

Fare i conti con la nostra contraddizione, non significa allora chiudere la partita con  quelle duecento persone che sono ancora in prigione. La posta in gioco è più alta, è il confronto vero con la storia. Per evitarlo, sono comodi anche i familiari delle vittime della lotta armata, che pare siano gli unici ad esistere visto che quelli dei morti nelle stragi non lo sono. Possiamo far finta di non sapere, ma il  vero nodo della detenzione politica sta nel fatto che i cittadini tutti devono fare i conti  col proprio passato.

 

 

"E i nostri sogni dove li avete buttati?", questo il titolo dato al dibattito dagli organizzatori. Che tipo di sogni aveva, quali ideali muoveva tanta parte della gioventù riconosciutasi nella cosiddetta sinistra antagonista, è stato l'argomento affrontato da Geraldina Colotti.

 

Colotti – Sono stati i sogni di chi è entrato dalla parte maledetta della storia. I sogni di chi non ha voluto essere innocente e non si sente tale nemmeno oggi. I sogni di chi spera che le domande lasciate in sospeso dalla mia generazione possano  turbare i sonni di quanti vorrebbero rimuovere una stagione che non è stata soltanto di tragedie, ma anche una stagione veramente molto feconda.

 

Quegli anni non sono riconducibili solo alla lotta armata, ma hanno pure prodotto una ricchezza enorme, che in parte è stata recuperata: basti pensare ai metodi di lotta adottati in politica, oggi perfino ripresi dalla Lega magari subdolamente. I miei sogni vorrebbero servire a dire qualcosa, senza dare risposte ma facendo in modo che non si rimuovano i problemi, anche se spinosi.

 

Non siamo stati innocenti. Abbiamo però tentato di dare soluzione a un rompicapo, che tutt'ogg ci viene consegnato: come a fare a togliere il potere a quelli che lo detengono e come fare a cambiare lo stato di cose presente, senza comunque usare quella che un tempo, chiamavamo "violenza rivoluzionaria". In Parlamento, ci si sta battendo per trovare una soluzione giuridica; tuttavia, questa non potrà sciogliere il rompicapo. È una domanda che appartiene alla società intera; a tutta quella società che non si accontenta del buon uso dell'innocenza.

 

In carcere ci sono, condannati, tre persone che proclamano la loro innocenza. Mi riferisco a Bompressi, Pietrostefani e Sofri. Mi chiedo: qual è il registro con cui affrontare questo tipo di vicenda? Quello giuridico o quello storico? Il primo interessa relativamente, perché non tutti i  problemi possono essere ridotti ai dibattiti processuali e perché si hanno ormai le scatole piene dei giudici che hanno soppiantato la politica. Il che non aiuta certo l'apertura di un discorso libertario da sinistra: oggi non si può più dire liberateci dai "giudici sceriffo" senza essere tacciati di berlusconismo, craxismo ecc. Dov'è la sinistra, in questo senso? Non c'è, e non c'è perché negli anni che hanno visto la lotta armata di sinistra alzare il  livello di scontro, si è imposta l'emergenzialismo che è poi diventato una filosofia e una cultura di governo con cui oggi si tende ad affrontare tutte le questioni sociali: dalla droga all'immigrazione.

 

Di tutto questo vorrei oggi liberarmi. Questi sono i miei sogni adesso: sogni concreti che vorrebbero essere un grimaldello di libertà per slegare le scelte di allora da questa cappa opprimente. Provo, oggi, un po' di ottimismo, perché vedo molti giovani rivolgere una domanda di memoria non addomesticata. C’è voglia di capire, il desiderio di non sottostare a tutte le versioni che sono state loro propinate e che pretenderebbero di comprimere la ricchezza di una generazione, dotata di una dirompenza che non è certo paragonabile al "buonismo" dietro cui la si vorrebbe oggi convogliare.

 

Sogni di libertà, dunque. Che non si possono arrestare e sempre si riformano. Sono in ognuno di noi, perché è vero che questo mondo sta bene a tanti che vi si accomodano, ma è anche vero che a tanti altri che non si possono accomodare non consente delle possibilità di esistenza libera e  felice. Non voglio fare demagogia, ma questa in cui viviamo è una società anestetizzata percorsa da una mediocre follia, nient’affatto bella ma anzi greve e sorda, che porta a gettar sassi dai  cavalcavia senza nemmeno  sapere il perché.

 

I sogni della mia generazione non erano invece da ultima spiaggia. Hanno avuto di fronte una barriera, la barriera dello Stato borghese. Lo stesso Stato di oggi, con la politica ridotta a teatrino nonostante lo sforzo dei pochissimi che tentano di coniugarla con altro. Una politica asettica, staccata dai sogni e bisogni della popolazione: che si fa nel Palazzo e mette a tacere anche le poche voci di quelli che tentano di portarla fuori.

 

 

Il movimento non è stato solo lotta armata. Anzi, tra le formazioni combattenti e il variegato  mondo dei gruppi di estrema sinistra si instaurò una dialettica spesso  contrastante. Una differenza di giudizi, che muove già dalla data del 12 dicembre 1969, quando scoppio la bomba alla Banca nazionale dell'agricoltura e vennero accusati gli anarchici Valprcda e Pinelli.

 

Lanza – La strage di Piazza Fontana ha rappresentato per me un bruschissimo risveglio. All'epoca militavo nel gruppo anarchico con Giuseppe Pinelli. Da poco tempo si era cominciato a "sognare" qualcosa di diverso: nel maggio '68 qualcosa era successa in Italia, e non poco irrilevante. Prima c'era il deserto e poi è accaduto l'incredibile. Anche chi faceva politica ai margini, si è trovato coinvolto in una dimensione quasi magica. Il modo in cui ciò avvenne, faceva pensare di essere partiti molto bene perché la critica al concetto di autorità, alla gerarchia fu posta in maniera seria. E l'autoritarismo presente nelle scuole e nelle fabbriche dové darsi una regolata: i presidi non potevano più essere dei despoti,  i capetti dei reparti capirono che non potevano più disporre della gente come pareva e piaceva loro.

 

Purtroppo, gran parte del movimento  di allora – anche la parte più creativa – è presto riconfluita nel ricreare le stesse dinamiche contro cui si batteva. Una situazione assai semplice: l'istituente, il movimento appunto, prendeva cioè le forme dell'istituito. Abbiamo cosi visto sorgere una miriade di partitini e di sigle, tutti e ognuno nel loro piccolo ghetto per gestire la loro altrettanto piccola fetta di potere. A quel punto il movimento è veramente morto. E non l'ha ucciso la controparte.

 

Giustamente Gallinari ha sottolineato che con la strage di Piazza Fontana l'autorità, lo Stato ha ridisegnato le coordinate dello scontro sociale. L'errore sostanziale di gran parte della sinistra è stato proprio quello di accettare la logica del potere. Il potere si muoveva interno di forze partitocratiche? La sinistra ha riproposto formazioni che scimmiottavano il potere ufficiale. Il potere usava la violenza e la criminalità? La sinistra, e in particolare coloro che scelsero la lotta armata, ha fatto sue le stesse forme. Il partito armato ha accettato lo scontro militare come terreno operativo. Di qui la crisi della sinistra, che oggi si barcamena in qualcosa di impalpabile e poco conosciuto.

 

L'altro errore è consistito nella scelta di confrontarsi con la politica ufficiale, quella dei palazzi. Ciò ha portato o alla cooptazione o alla criminalizzazione, perché il potere sa come gestire queste cose. Alcuni, sono diventati parte integrante del potere, gli altri hanno adottato la stessa logica militarista e criminale del potere. Oggi, per ricominciare a sognare e – fuor di metafora a fare politica, al di fuori delle istituzioni ufficiali, la via maestra è quella di non entrare in competizione col potere. Significa pensare a nuove aree temporaneamente autonome, aree di pensiero e di modi di vita capaci di porsi come alternativi.

 

Interrotto il dibattito, ha preso la parola il figlio del funzionario dell'antiterrorismo Antonio Esposito, ucciso a Genova dalle Brigate rosse il 6 giugno 1978.

 

Esposito – Parlo a disagio, perché fra i presenti sul palco vi è chi è stato condannato all'ergastolo per l'omicidio di mio padre. È lo stesso disagio che provo quando queste persone – nei media o qui – sono interpellati come intellettuali, quando invece hanno fatto e scritto delle cose orribili. Pagine e pagine di proclami, con ragionamenti fumosi e in fondo semplicistici, privi di autentica profondità.

 

Sul volantino di rivendicazione dell'omicidio di mio padre, tra i vari insulti si parla anche delle benemerenze che avrebbe acquisito presso la famiglia Agnelli. Queste benemerenze erano talmente elevate, che mio padre non possedeva nemmeno la macchina. Andava a lavorare in autobus, dove fu ucciso con quattordici colpi di pistola. Oggi non provo rancore o odio: ho vissuto questi diciannove anni senza un padre, ma come tante altre persone.

 

Nel corso del rapimento Moro, lo Stato rifiutò di riconosce politicamente i terroristi e oggi ha meno senso di allora nobilitarli dando loro la patente di criminali idealisti. L'indulto può avere un senso se si parlasse di un movimento rivoluzionario radicato nella popolazione o di guerra civile. Allora avevamo invece di fronte solo una banda di assassini, come li definiva Berlinguer. L'indulto non può essere dato a costoro, che non rinnegano nulla e che candidamente dichiarano solo di aver sbagliato strategia. Se una persona non è in grado di riconoscere di aver fatto delle cose orribili, non è coerente o coraggiosa, ma  soltanto demente. Non può essere pertanto concessa alcuna amnistia, sino a quando non si farà completa chiarezza su quel periodo. Viene il sospetto che, oggi, lo Stato con l'indulto voglia lavarsi la coscienza riabilitando persone che forse all'epoca facevano comodo.

 

 

Riprendendo la serie degli interventi della tavola rotonda, Geppy Rippa ha provato a fissare alcuni primi punti fermi della discussione.

 

Rippa – I due piani che qui sono stati proposti, quello giuridico-istituzìonale e quello storico politico, sono complicati e difficili da coniugare. Vorrei, per il momento, accantonare il primo. Anche perché la mia sensazione è che la rappresentanza politica di questo Parlamento, in questo tempo storico, è assolutamente inadeguata a fornire risposte di governo politico e ad accogliere la domanda politica presente nel paese. Ciò fa parte di un ulteriore restringimento della stessa rappresentanza politica, in un quadro di "normalizzazione"  di preoccupante portata. Ma questa è una considerazione aggiuntiva, che va associata all'assenza di cultura riformatrice in questo quadro politico-istituzionale.

 

Qui vorrei fissare alcuni parametri di lettura della crisi e ribadire alcuni concetti elementari. Agli inizi degli anni '70, le richieste di cambiamento e il movimento che ne fu espressione, sulla spinta di un movimento internazionale più vasto, ebbe in Italia in misura più rilevante le fattezze di una cultura marxista-leninista. Tuttavia, l'anelito al cambiamento non presentò solo questo carattere specifico. Le domande di libertà che salivano dalla società di quei tempi, trovarono uno sbocco in tutt’altre direzioni: allora crebbe e si consolidò il movimento dei diritti civili. Esso cercò di canalizzare le richieste provenienti dai nuovi soggetti sociali – le donne, i giovani – su un terreno che si muovesse si in chiave di antagonismo istituzionale, ma con una diversa cultura da quella rivoluzionaria marxista.

 

Gallinari ha, poco fa, dato una propria rappresentazione dei fatti di allora. Non dimentichiamo però che la cultura leninista soffriva, rispetto al nostro Stato, di una insensibilità istituzionale di fondo. Riteneva cioè sovrastrutturale la capacità di iscrivere le contraddizioni in sede istituzionale e farle lievitare attraverso certi passaggi. È, questo, un aspetto di non poco conto per capire i motivi per cui avviene una devianza di questo genere.

 

Quando nel '79, il movimento nonviolento, libertario e radicale rivolse l’appello ai "fratelli assassini" delle Brigate rosse, lo fece per scongiurare che si mettesse all'ordine del giorno la domanda di cambiamento come questione terroristica. Era quello il terreno più congeniale a uno Stato che voleva allontanare le ipotesi di cambiamento dal suo orizzonte politico, come accennava anche Lanza.

 

Il regime, il processo di regime partitocratico, ha avuto all'inizio degli anni '70, sulla spinta del movimento dei diritti civili che posizionava nuove esigenze di emancipazione, un momento di scontro veramente drammatico. Non è casuale che a quel   punto l'agenda politica si trovò il terrorismo come problema centrale e ossessivo. In questo modo, il movimento dei diritti civili fu marginalizzato nella sua capacità di produrre e di imprimere un colpo durissimo alle modalità degli equilibri di potere di quel tempo. È questo un elemento che va attentamente considerato.

 

Ciò permetterebbe di concentrarci sulla possibilità di avviare una soluzione, per il problema carcerario e della pena, nella quale l'indulto non sia ridotto entro coordinate di mercificazione, ma possa servire a far lievitare un processo di memoria storico-politica. Dentro di essa tutti gli aspetti potrebbero allora riguadagnare piena legittimità. Ci mancherebbe altro che i figli di chi è morto a trentasei anni compiendo il suo dovere, non abbiano ragioni e tensioni. Non è  questo il punto sostanziale. Paradossalmente, però, anche la domanda – che un po' surrettiziamente Gallinari e altri ascrivono a sé – di coloro che sono morti nelle  cosiddette "stragi di Stato" può avere medesima legittimazione.

 

Questo paese non è in grado di comporre niente in termini di civiltà democratica perché è da decenni fuori dai processi di civiltà tout court. È il paese della illegalità costituita; del massacro costante del diritto; è il paese che ha costruito le sue scelte strutturali, condizionato dal suo ruolo geopolitico post-Yalta e dai processi di formazione delle classi dirigenti che avvenivano fuori da esso, finanziate dall'estero. Questo ruolo dell'Italia è stato anche condizionante nella sua crescita individuale e istituzionale. La mancanza di questo processo di chiarificazione ce la portiamo appresso e a tutt'oggi non si intravedono segnali della capacità di intraprendere in modo corretto un processo di mutamento, che contenga in sé un impulso riformatore nonché le condizioni preliminari per aprire un dibattito serio.

 

A Gallinari vorrei far rilevare come, se per lui può forse avere elementi di verità l'accusa che ci veniva rivolta di essere complici del regime, quando ci ponevamo in chiave di antagonismo e competizione con la nonviolenza e le battaglie per i diritti civili giudicate a  sinistra come sovrastrutturali; altrettante e più solide ragioni ha chi vede nella lotta armata, oltre che l’orrore e il dolore dell’assassino, una vera e propria contro sponda al  regime stesso, che della violenza ha bisogno per legittimare la sua violenza. Non a caso abbiamo avuto il gioco degli infiltrati e i meccanismi che lo hanno determinato, basti pensare al caso Cirillo.

 

Anche questo faceva parte di un quadro di ricomposizione con cui ci si è offerti – da antagonisti – alla “perversa intelligenza”  del potere. Sono aspetti che andrebbero considerati. Ma dove? In quali luoghi si può determinare un dibattito del genere? In un paese in cui il processo di regime ha consumato tutta la sua parabola, appare molto improbabile che si possa avviare un qualsiasi chiarimento, dal momento che le vie di convergenza vanno tutte verso nuovi equilibri di élites dominanti per quanto subalterni a poteri esterni. L’anastetizzazione del conflitto sociale è stato uno dei disegni strategici costanti messi in piedi dal regime in quanto tale.

 

Oggi, la ricomposizione viene riproposta secondo le stesse dinamiche di anestetizzazione già praticate in passato. E ciò avviene allontanando dal paese le condizioni minime attraverso cui diventerebbe davvero possibile dare risposte alle domande di governo e alla parallela crisi di decisione e rappresentanza politica. La società in cui viviamo non è neanche più la società della crisi, che si confronta con il declino del modello strutturale del welfare  State, ma è la società delle conseguenze della crisi medesima. In essa, tutti gli aspetti dei vari sistemi corporativi hanno debordato e assunto su di sé funzioni puramente autoreferenziali. Entro questo processo, mancano allora le condizioni minime per risistemare una interpretazione che dia ragione della vicenda storico-politica vissuta e che ci consenta di affrontare, in modo lineare corretto, le tante questioni irrisolte.

 

Gallinari ha fatto cenno al ruolo "stabilizzante" della cosiddetta strategia della tensione, di quello che un tempo si definì "terrorismo di Stato". In questo senso, mi chiedo se non sia giunto il momento di ricostruire finalmente la intelligenza complessiva degli equilibri di potere dal dopoguerra a oggi. Da quando cioè cade il fascismo e con esso le  istituzioni; sostituiti dalle culture egemoni di fatto coincidenti con la sinistra marxista e un clericalismo cattolico. Per entrambi le

istituzioni liberali erano vissute comunque con fastidio e nessuna delle due veramente portata a credere nelle regole della democrazia liberale. Tant'è che la stessa dialettica parlamentare  appariva  loro in termini di sovrapposizione marginale. Tutto questo ha prodotto lunghi processi di falsificazione e di doppie verità, di cui gli esiti giungono a sintesi ora quando è venuto meno il referente generale del modello politico-culturale rappresentato dall'assistenzialismo di Stato.

 

Questa vicenda complessa va a incrociarsi con la desertificazione della politica e con processi di semplificazione sempre più atroci, spinti da un processo di finanziarizzazione del mondo. Dentro i quali la semplicità, prodotto importante per ognuno di noi, è rappresentata come una sorta di arroganza assoluta, di impiccio che disturba la sempre più ristretta cerchia dei soggetti che decidono le sorti dell’umanità. Se i processi sono complessi, bisognerebbe invece avere l'umiltà di riscriverli e consumarli politicamente, consentendo conoscenza, responsabilità. È sul piano politico che si dovrebbe approdare a delle ipotesi riformatrici dei problemi medesimi, attraverso un allargamento dell'area delle persone che ne hanno consapevolezza. Al  contrario, la logica prevalente è quella elitaria per cui la stessa "sinistra" oggi al potere – poiché non crede alla grande apertura dei livelli di responsabilità – gioca la sua partita soltanto a livello di vertice e di compromessi interni. La verità è che nessuno sa davvero quale sia la posta in  gioco, tutto resta avvolto nei fumi di accordi e scontri operanti sopra le teste dei cittadini.

 

In tutto ciò, registriamo l'assenza più completa della informazione, sempre più legata a poteri finanziari e sempre più senza deontologia professionale, del mondo della cultura come pure dei soggetti che dovrebbero essere parte integrante di un processo di autonomia reale, in grado di indirizzare in termini di sensibilità e cultura liberale e  democratica. Il nostro paese è e resta, invece, medievale; il suo torbidume rimane intatto e le logiche sono circoscritte a pochi attori. L'intera vicenda nazionale è uno stato di smarrimento, le cui finalità  non sono ancora definite e tali saranno dato il contesto che viviamo, caratterizzato da un medievalismo istituzionale di fondo, complicato da contraddizioni e arretratezze.

 

(da Quaderni Radicali n. 56/57settembre/dicembre 1997)

 


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