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16/11/24 ore

Caso Ilaria Alpi, il mistero resta irrisolto: ieri dicevamo sulla condanna di un “capro espiatorio”



"L'uomo in carcere", accusato dell’omicidio di Ilaria Alpi e Mira Hrovatin, "è innocente". Io non ho visto chi ha sparato. Non ero là. Mi hanno chiesto di indicare un uomo". Il “super-testimone” Ahmed Ali Rage, detto Jelle, lo ha rivelato alla trasmissione di Rai 3 "Chi l'ha visto?".

 

L'uomo - secondo quanto si legge in una nota diffusa dalla redazione della trasmissione - ha raccontato che "gli italiani avevano fretta di chiudere il caso e gli hanno promesso denaro in cambio di una sua testimonianza al processo: doveva accusare un somalo del duplice omicidio. Jelle indicò il giovane Omar Hashi Hassan al pm Ionta durante un interrogatorio, ma poi non si presentò a deporre al processo e fuggì all'estero. Per la sua testimonianza il giovane Hashi Hassan fu arrestato e condannato all'ergastolo".

 

Sul caso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Quaderni Radicali promosse il 2 aprile del 2003 un convegno intitolato “L’omicidio Ilaria Alpi: un mistero irrisolto”, i cui atti furono pubblicati nel numero 80/81 della rivista, dal quale emergevano tutti i dubbi sulla "verità" processuale. Intervennero con il direttore Giuseppe Rippa, la giornalista Rai Sonia Ceccarelli, gli allora i parlamentari dei Ds Carlo Leoni e Vincenzo Siniscalchi, Massimo Bordin, Franco Oliva, l’avvocato di parte civile Domenico D’Amati e i legali di Hashi Omar Hassan Douglas Duale, Antonio Moriconi e Natale Caputo. Con i genitori di Ilaria, Giorgio e Luciana Alpi, erano inoltre presenti Mariangela Gritta Grainer e la diplomatica belga Myrianne Coen.

 

Di seguito riproponiamo l’intervento dell’avvocato Antonio Moriconi, che ricostruisce i passaggi discutibili delle indagine e di un processo che “ha creato ad arte un capro espiatorio”.

 


 

ALLA FINE IL PROCESSO HA “CREATO" AD ARTE UN CAPRO ESPIATORIO

 

di Antonio Moriconi

(da Quaderni Radicali 80/81 - aprile/luglio 2003)

 

Quando ho iniziato a occuparmi del processo sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ero del tutto a digiuno di notizie sulla vicenda. All’epoca la causa era già davanti alla Corte d’assise di Roma, per cui ho cominciato a leggere gli atti e man mano che si proseguiva, udienza dopo udienza e ne sono state tante, mi sono fatta un’idea. Dapprincipio mi ero chiesto perché Hassan era incarcerato e ho affrontato il problema da difensore: mi aveva colpito che Hassan era in carcere accusato di reati gravissimi, sulla scorta di due testimonianze.

 

A individuare Hassan come uno dei sette aggressori era stato l’autista del mezzo, sul quale viaggiavano i giornalisti: Quando lessi le sue dichiarazioni, mi domandai subito perché mai fosse stato arrestato. Chi ha proceduto all’interrogatorio lo ha fatto in modo molto irrituale e vi spiego perché.

 

Come ho già detto durante il processo, i dolori del giovane somalo da noi difeso sono cominciati da quando – giustamente – la famiglia Alpi ha richiesto quella giustizia che le era stata negata, dopo aver compreso che troppe cose non andavano. È a seguito di queste giuste rivendicazioni che si giunse all’individuazione e all’arresto di Hassan, sulla base della testimonianza dell’autista Abdi.

 

È qui che ha origine la mia meraviglia: dopo aver disposto due consulenze tecniche, a seguito della riesumazione del cadavere richiesta dalla famiglia Alpi, e aver avuto una super consulenza da parte dei cinque periti tra i primi d’Italia sulle modalità dell’accaduto, come mai gli inquirenti non hanno arrestato l’autista il giorno stesso in cui è venuto in Italia a fare le sue dichiarazioni? Dico queste cose perché, a quel punto del processo, risultava chiaro che la giornalista era stata uccisa da un colpo di pistola calibro nove sparato a contatto.

 

Ricostruendo i fatti, c’era una sola persona dentro l’automobile assieme a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ed era appunto l’autista. Come aveva potuto reggere, davanti al Tribunale della libertà, contro il nostro assistito un’accusa basata su un teste che veniva smentito dalle risultanze della superconsulenza? Un teste palesemente bugiardo già davanti al pm; è un teste – e mi assumo in prima persona la responsabilità di quanto affermo – “istruito”.

 

Al momento dell’interrogatorio davanti pm – quando era già noto che Ilaria Alpi era stata vittima di un’arma corta – egli dichiara che all’epoca del fatto non era armato e di non aver portato una pistola. In quella stessa sede, però, viene sentita anche la guardia di scorta, la quale dichiara che l’autista dopo l’agguato era sceso e aveva anche sparato qualche colpo contro gli assalitori. A quel punto si fa un confronto fra i testimoni, che restano tuttavia sulle loro posizioni. I dure poi partono per la Somalia e questo solo rimane agli atti.

 

L’autista Abdi è un teste “informato”’ perché nelle prime dichiarazioni, quando riferisce dell’agguato, afferma che i componenti del commando erano tutti armati di M19, un fucile mitragliatore americano. Quando verrà effettuata la perizia tecnica, dal momento che prima non c’era nessun riscontro, si accerta che Hrovatin è stato ucciso da un proiettile di Kalashnikov. A questo punto, l’autista – sentito una seconda volta – cambia la prima dichiarazione e dice che solo lo sparatore di sinistra era armato di M19, mentre quello di destra che ha sparato alla volta di Hrovatin aveva un Kalashnikov.

 

Di fronte a ciò, anche l’ultimo degli investigatori o dei pm avrebbe arrestato Abdi, che si rivela un testimone “costruito” in quanto la modifica della sua versione è successiva al deposito della superconsulenza sul kalashnikov e pertanto gli è stata “imbeccata” da qualcuno. Questo episodio non fece che avvalorare i miei sospetti su questi testimoni, che già a una prima impressione mi erano sembrati fondati sulla menzogna. Meglio: sul depistaggio, che percorre un po’ tutta questa inchiesta.

 

Si arriva al processo di primo grado. Prima di audire nuovamente Abdi, è sentita come persona informata dei fatti il giornalista Alberiti, amico di Ilaria. Questi dichiara di essere stato lui a indicare Abdi come guida e che, prima della partenza del gruppo, lui in persona aveva regalato allo stesso autista una Parabellum calibro nove acquistata al mercato nero. Quando Abdi, in aula, insiste nel dire che non era armato è richiesto un confronto con il giornalista Alberiti, il quale invece – pur ammettendo un reato: l’acquisto di un’arma al mercato nero – conferma quel che ha detto in precedenza. Questo è Abdi, il principale teste d’accusa.

 

Durante il dibattimento, la Corte d’Assise decide di realizzare nuove perizie perché non è soddisfatta dalle consulenze ordinate in fase istruttoria dal pm. Del resto, va ricordato che c’era stata una gravissima omissione all’inizio del processo: vale a dire il non aver disposto, all’arrivo della salma della Alpi, la perizia medico-legale. Un fatto di gravità inaudita, che sostanzia i sospetti avanzati dalla famiglia e che si sono concretizzati nel corso del processo.

 

Pertanto, il tribunale nomina due nuovi periti – Benedetti e Torre – i quali smontano completamente le conclusioni dei cinque super consulenti della Procura. E ricostruiscono i fatti in un modo che avvalora quanto raccontato dall’autista: sono tutti aggiustamenti tesi a confermare quella testimonianza che nella sostanza smentiva ogni ipotesi di agguato premeditato. Si è così arrivati a dire che un colpo di Kalashnikov aveva traforato il parabrezza, attraversato il corpo del povero Hrovatin e si era quindi fuso – una cosa aberrante pronunciata da tecnici industriali e balistici – con un pezzo di metallo, per conficcarsi infine nel capo di Ilaria Alpi.

 

Basandosi su presunti esperimenti realizzati per ricreare le stesse condizioni dell’agguato, il responso di questi due periti ha sovvertito del tutto la perizia scientifica effettuata in precedenza che parlava di un colpo ravvicinato sparato da una pistola. Nonostante ciò, la Corte d’Assise assolve per insufficienza di prove Hassan, con una sentenza che nella motivazione – valutando tutte quelle “prove” – affonda pesantemente la spada contro gli organi inquirenti, accusati in sostanza di essere degli incapaci per come avevano condotto le indagini e per come erano stati fatti i rilievi. Inoltre, la Corte individuava Hassan come capro espiatorio di una delle fazioni in guerra in Somalia. Un risultato, quello di prima grado, che poteva soddisfare la difesa interessata soprattutto di provare l’innocenza dell’imputato. La procura, da parte sua, ha impugnato il verdetto e si è giunti all’Appello, dove è accaduto qualcosa di veramente grave, tanto che – devo dire – la sentenza emessa in quella sede andrebbe valutata addirittura sotto il profilo penale.

 

Come avvocati della difesa, anche noi abbiamo fatto appello – una “impugnazione incidentale” – su un unico argomento: chiediamo di mostrare la cassetta del filmato che riprendeva quanto accaduto subito dopo l’imboscata che, stando alle testimonianze, aveva come scopo la semplice rapina. Questo, perché nella sentenza si riportava che Jelle – il compare di Abdi – era presente sul posto. Era stato proprio Jelle a indicare in Hassan uno degli aggressori. È nostra intenzione far vedere la cassetta ad Abdi – in quel momento ancora in Italia a disposizione della Digos – per stabilire se aveva modo di riconoscere le persone riprese.

 

Va tenuto presente che sugli appelli di questo tipo, la Corte decide in modo collegiale dopo una camera di consiglio. Da quest’ultima, la Corte esce con un provvedimento inquietante. La richiesta dei difensori è accolta con la motivazione che il filmato deve essere visto dal commissario Giannini, affinché egli possa riconoscere o meno nelle immagni riprodotte quella del testimone Jelle che asseriva di essere sul posto; non è fatto cenno alcuni su Abdi.

 

I giudici chiedono invece altre due cose, a mio avviso, particolari: una perizia sui fotogrammi relativi a una persona ivi ritratta; e soprattutto di sentire un agente operante, la cui esistenza nel processo era ai giudici del tutto sconosciuta. Questo agente che aveva, a suo tempo, mostrato delle immagini a Jelle il quale vi si era riconosciuto, non era stato mai – e ripeto mai – sentito in Corte d’Assise: era un teste di cui si parlava soltanto negli atti della Procura e del quale i giudici non conoscevano nemmeno l’esistenza. Già questi elementi nel’ordinanza di accettazione dell’appello incidentale erano inquietanti.

 

Ma quello che ha più colpito – e che potrebbe essere oggetto di indagine penale, oltre che amministrativa – è il fatto che i due testi (il commissario e l’agente) erano già pronti per essere sentiti: erano cioè presenti in aula subito dopo la lettura dell’ordinanza. Di norma in casi come questi si rinvia e si citano i testimoni che, invece, erano fuori dell’aula perché – evidentemente – erano stati già avvertiti. Addirittura il commissario Giannini aveva in borsa le foto di cui si parlava nell’ordinanza. Su tali foto si è pronunciato quindi un maresciallo dei Carabinieri, che ha effettuato un riconoscimento dell’individuo ritratto nelle foto stesse, dalle fattezze fra l’altro nettamente diverse.

 

Si arriva dunque al giudizio, che ribalta l’assoluzione di primo grado e condanna all’ergastolo Hassan. La sentenza è fondata su questo Jelle, le cui bugie sono conclamate perché il suo racconto è così pieno di errori che a tutti è apparso chiaro che durante l’azione non c’era.

 

La sentenza ammette la ridotta credibilità del testimone ma accusa Hassan perché è presente ed è presente perché lo prova la perizia. Questa motivazione ha retto in cassazione, perché nella nostra giurisdizione abbiamo un totem per cui quando una motivazione è apparentemente è logica non si può entrare nel merito. Hassan è stato pertanto riconosciuto responsabile dell’omicidio.

 

Ebbene, se la condanna si regge su questo atto, ritengo che sia giusto si faccia un’indagine penale e amministrativa, perché questo atto così com’è stato confezionato in Appello è inquinato. Se la giustizia, che deve avere come suo scopo la verità, si induce a modellare a proprio piacimento la verità stessa, occorre chiedersi a chi giova o chi ha giovato.

 

Allora tutte le inquietudini della famiglia Alpi prendono corpo, perché si è fatto così per tacitare tutti: abbiamo un colpevole che tuttora è ristretto in prigione e sta espiando un reato che certo non ha commesso.

 

Non si tratta di un errore giudiziario – e mi assumo la responsabilità penale di quanto affermo – perché qui è stata “fabbricata” la prova della sua colpevolezza. E ciò è consacrato in tutte le sentenze e negli atti del processo. Giunti a questo punto, non bisogna solo interrogarsi su ieri o su quello che c’è dietro l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ma capire anche oggi che cosa c’è dietro questa sentenza. Nulla è casuale: oggi posso dirlo in piena coscienza, Hassan è nella realtà un capro espiatorio. Non delle fazioni in lotta in Somalia, come sosteneva la sentenza di primo grado, ma il capro espiatorio di qualcosa di misterioso che è dentro l’omicidio premeditato di Alpi e Hrovatin.

 

 

 


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