«Un giorno mia madre mi disse di avermi dato il nome Fouad perché, nella mistica islamica, corrisponde al suono del sangue quando il cuore lo fa scorrere per la prima volta nel corpo dandogli vita»
Il suono vitale del sangue spinto dal cuore si è zittito improvvisamente, dopo qualche sussulto, per Fouad Allam. Mercoledì 10 giugno, è mancato a Roma, nella sua stanza d’albergo, come hanno subito riportato tutti i quotidiani italiani online, diffondendo la notizia.
Khaled Fouad Allam ha vissuto molte vite professionalmente, spesso mescolate fra loro: giornalista, sociologo, politico, scrittore, docente universitario, consulente. Presso il corso di laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia – sede di questo giornale – tutti lo conoscevano perché teneva il corso di sociologia del mondo musulmano. Noi studenti, e come noi docenti e personale, abbiamo appreso costernati la notizia della sua morte. Inaspettata e turbatrice, come un temporale d’estate turba una giornata di sole.
Il senso di un articolo a commentare la scomparsa di qualcuno può sfuggire. Come possono queste parole trasmettere ciò che una persona è stata? Perché imprigionarne il ricordo in poche righe? In fondo, per ognuno Khaled Fouad Allam ha rappresentato qualcosa di diverso. In gioventù, figlio, amante, amico, allievo. E poi padre, maestro, magari per altri ciarlatano, immigrato, avversario politico. Per chi scrive, insegnante prezioso e relatore distratto. In università lo abbiamo stimato, invidiato, ma anche aspettato inutilmente, rincorso, criticato. Lui non s’interessava troppo delle nostre opinioni, così dedito alla sua battaglia per comprendere e far comprendere l’islam.
Eppure, non era stata una passione fin dall’infanzia, come lui stesso racconta in uno dei suoi libri più recenti, L’islam spiegato ai leghisti: «Io ero destinato a tutt’altro, quando avevo vent’anni. Studiavo a Orano, in Algeria; uno zio che all’epoca era ambasciatore mi spingeva a fare l’Ecole Nationale d’Administration per diventare un giorno diplomatico come lui. Ma avevo anche una passione per la musica, e avendo studiato al conservatorio avrei voluto continuare per dedicarmi alla direzione d’orchestra».
Sembra quasi di vederlo, un giovane Fouad Allam ingiacchettato, il collo stretto da un papillon e una bacchetta in mano, fluttuante nell’aria, a dettare il tempo ai suoi musicisti. Non è così diverso, in fondo, dall’agitare un pennarello in aula davanti a una classe di studenti per dare armonia alla cacofonia dei loro pensieri acerbi. «Ma il destino aveva scelto per me un’altra cosa» ricordava Allam. «Un evento avrebbe capovolto la mia idea su ciò che desideravo fare. Uno scontro di violenza inedita all’università in cui studiavo fra le prime tendenze radicali dell’islam e gli studenti democratici – in cui a una ragazza fu versato addosso dell’acido – creò in me sconforto, inquietudine e paura. Volevo fare qualcosa perché si uscisse da quell’incubo; che cosa avrei potuto fare? Dovevo studiare per capire. Perciò decisi di migrare e di studiare dall’esterno la mia religione, la mia società, il mio mondo. Così arrivai in Italia […] »
Nel mondo accademico italiano, era impossibile non conoscerlo, per gli interessati all’islam. Negli anni, oltre ad aver raccontato i paesi arabi per La Repubblica, Il Sole 24 Ore e altri giornali, si era dedicato alla divulgazione della sua visione conciliatoria tra islam e Occidente scrivendo numerosi libri. Tutte le biblioteche, che amava, ospitano i suoi lavori, come L’islam globale – primo successo editoriale – seguito a distanza di qualche anno da Lettera a un kamikaze – tradotto e pubblicato all’estero – e da altri titoli, fino al recente Il jihadista della porta accanto, dato alle stampe appena pochi mesi prima della strage nella redazione di Charlie Hebdo e ristampato con una nuova riflessione dopo l’attacco.
Enorme cultura e intensa passione letteraria emergono sfogliando ogni sua opera. Scritte sempre, tuttavia, con un occhio di riguardo verso “l’italiano medio” che non mastica alti concetti accademici o filosofici. La sua casa nel quartiere di San Giusto, a Trieste, era una miniera d’oro per uno studioso: su ogni mensola, tavolo e poltrona, su ogni superficie orizzontale si alzavano colonne di libri, fotocopie, appunti. L’aria sapeva di incenso e musica araba, il tempo correva rapido e se ne usciva con più domande che risposte. Ma anche questo era lui. Da alcuni anni, però, soffriva per la sua infermità fisica: «In quel periodo [novembre 2010, ndr] stavo veramente male; la mia malattia, un diabete che mi consumava lentamente, stava progredendo; due mesi dopo mi trovavo in ospedale per sottopormi a un’amputazione. Io che non amavo medici e ospedali […] vi trovai un’Italia che mi consolava».
L’angoscia per gli ospedali gli è costata cara, due giorni fa, quando non ha voluto sottoporsi a un controllo dopo il primo, leggero, malore. Ma anche questo, ancora, era lui. «Gli anni sono passati, mentre il mondo musulmano era attraversato da turbolenze crescenti; e spesso mi sono chiesto il perché di tutto questo. E mi chiedevo come mai avessi fatto della questione islamica la mia vita: questa scelta – o non-scelta – mi trascinava nelle preoccupazioni e inquietudini più cupe, o nella speranza che cercavo di costruire. Perché prima o poi, pensavo, il mondo sarà migliore».
Avvicinare mondo arabo e Occidente è stata la sua battaglia. E in fondo sta un po’ a tutti noi, nell’incontro quotidiano con l’Altro, portarla avanti. Ciascuno un pezzetto, come se ognuno potesse conservare e diffondere uno di quei tanti libri rimasti aperti sulle mensole e le poltrone della sua casa, che ora nessuno leggerà più.
Lorenzo Alberini
(da www.sconfinare.net)
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- Mondo arabo-islamico, dalla cultura tribale alla domanda di modernità e democrazia Khaled Fouad Allam a colloquio con Anna Mahjar Barducci e Giuseppe Rippa (da Quaderni Radicali 92)