Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

18/11/24 ore

Aldo Masullo: Ucciso a calci mentre tutti guardano



di Aldo Masullo  (da ilmattino.it)

 

Nelle grandi culture premoderne i sacrifici di esseri umani incolpevoli erano sempre socialmente ritualizzati come tributi dovuti a divinità irate o a dominatori esigenti. Notissimo è il mito del Minotauro, mostro a cui Minosse, re di Creta, dava annualmente in pasto sette giovinetti e sette vergini, tributo da lui imposto alla città d’Atene. Tali sacrifici non erano mai senza una ragione, essendo immaginati come mezzi necessari per la salvezza della collettività.

 

Le società del nostro tempo, tutte piene di calcolo scientifico, tecnologico ed economico, praticano anch’esse, anzi in ben più larga scala, sacrifici di esseri umani incolpevoli. Ma si tratta di sacrifici senza ragione.



Il sacrificio delle giovani vittime si consuma oggi non per uno scopo, ma come effetto collaterale del funzionamento di un’enorme e demente macchina sociale, che sempre più assomiglia al Leviatano, il mostro biblico evocato nel ‘600 da Tommaso Hobbes per raffigurare il totalizzante potere dello Stato assoluto. Questa volta però lo Stato, ormai «democratizzato», è soltanto l’epifenomeno, potremmo dire, cioè la superfetazione particolare di un meccanismo globale.



Nel secolo scorso se n’è data una rappresentazione esemplare nelle analisi di Michel Foucault, con il modello biopolitico della società disciplinare, basato sul controllo di massa dei corpi. Ma in questo esordio di nuovo secolo, con i profondi mutamenti indotti dall’economia globale e dalla politica neo-liberale, l’incombenza leviatanesca sembra trovare la sua rappresentazione più calzante nel modello psicopolitico del controllo delle menti.



Come osserva il filosofo Byung-Chul Han, la pratica invasiva dei big data, rendendo leggibili dal potere i nostri desideri, anche inconsapevoli, funziona come un pan-opticon digitale, assai efficiente nel selezionare gl’individui privi di valore economico e in quanto «spazzatura» escluderli dal sistema. Gl’individui integrati invece sembrano soddisfatti, perché credono di essere liberi: non capiscono che il potere non li controlla, solo perché li riduce a controllori di se stessi per suo conto: «il soggetto digitalizzato, interconnesso, è un panottico di se stesso».



Non diversamente, i giovani di tutti i ceti, che nottetempo si ammassano in discoteche come la famigerata catalana Lloret del Mar, sentono di fondersi in un unico corpo mostruoso, e annullano la coscienza in una sfrenata totalità di vibrazioni ripetitive, credendo di celebrare l’assoluta libertà del piacere, mentre non sono che i recipienti scoperchiati, in cui la macchina infaticabile della produzione di denaro versa le sue scorie tossiche.



Che queste scorie, devastando le città e i loro normali tessuti di convivenza, minaccino i luoghi stessi in cui si producono, è segnalato dal fatto che in essi si levano non poche voci a reclamare di finirla con il turismo selvaggio. Il che impone la semplice e forse ingenua domanda: perché si autorizzano questi impianti di alienazione giovanile di massa? Qui entra in scena la prima di una lunga catena di responsabilità, a cui, anello per anello, è sospesa l’ultima feroce morte del giovanissimo e incolpevole ragazzo italiano Niccolò Ciatti. Ma la via per risalire ai primi anelli della catena passa per la preliminare necessità di capire da quali profondi bisogni tanti giovani siano spinti verso il nirvana profano delle discoteche.



Noi vecchi, per esempio, non capiamo come si possa restare per ore, assordati da sonorità ossessive, movendosi su ritmi ripetuti senza fine, come marionette inanimate, e soprattutto senza poter scambiare una sola parola con chi ti sta corpo a corpo. Eppure proprio la possibilità di stare con tanti altri, per lo più sconosciuti, senza potere e quindi senza dovere parlare, in una specie di naufragio mistico senza mistero, io credo sia il gorgo che affascina. I giovani dell’era digitale non amano parlare, perché a loro è estranea la parola: essi non comunicano più per simboli come le parole ma per segni, come all’origine ma adesso veloci come la luce.

 

La parola esige tempi troppo lunghi ed è faticosa da costruire. La parola richiede il lavoro del pensiero e, ancora più gravosa, la elaborazione di sentimenti. Invece i segni elettronici sono fulminei e sempre già pronti, un sì o un no, e il loro uso non comporta sentimenti elaborati, ma semplici, elementari vibrazioni emotive. Le quali in certi casi possono addirittura essere catastrofiche, brevissime e violente come esplosioni, talvolta perfino omicide, come le cronache abbondantemente registrano. Un tempo i conventi di clausura erano rigidamente sottoposti al silenzio.


Oggi le discoteche sono le cattedrali profane, in cui con assordante rumore si celebra l’afasia giovanile. La società, di cui questo è l’effetto, è l’esatto rovescio di quella che nei decenni centrali del secolo scorso fu salutata come la «società educante». La società ora è maleducata e diseducante, soprattutto in continua fuga dalle proprie responsabilità, falsamente tollerante e intrinsecamente corruttiva, a partire da noi che, padri, insegnanti, politici, non facciamo nulla per provocare i giovani a parlare. Il caso del piccolo pacifico commerciante, pestato a morte, richiama un altro specifico aspetto sociale, che pesa sulle grandi e frequentatissime discoteche: la promiscuità.



Oggi, in queste centrali del divertimento si mescolano individui di ogni nazionalità, di ogni ceto sociale, di ogni abitudine di vita. Così, del tutto naturalmente, gomito a gomito con il ragazzino mite, che con qualche amico ha voluto provare la nuova e apparentemente innocua esperienza, si possono trovare, per lo più in gruppo, bulli prepotenti, attabrighe abituali o piccoli criminali in libera uscita. Bastano un gesto sbagliato o l’apparire di una vittima facile, perché si scateni la corrida. Questa della corrida è appunto la tragica immagine del povero Niccolò a terra come un ignaro torello ferito a morte mentre una ridda di tre scalamanati inferociti non cessa di colpirlo.



Come in ogni corrida, oltre il toro e i suoi massacratori non vi sono che spettatori, indifferenti o anche divertiti. Nessuno ha lanciato neppure un grido d’allarme per interrompere il nefando incantesimo. Per lo più l’alcol e la droga accrescono smisuratamente negli aggressori e in molti spettatori il piacere della violenza. Se il sacrificio senza ragione di tante incolpevoli giovani vite non cessa, ciò vuol dire che esso fa parte del sistema totale. Questo è il lato più oscuro della vergognosa mattanza

 

da ilmattino.it

 

 


Aggiungi commento