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23/11/24 ore

'L'intrepido' impotente di Gianni Amelio


  • Florence Ursino

 

Antonio è un uomo buono (come il Pane che, guarda un po', è il suo cognome) che in una grigia Milano dei nostri tempi, ogni mattina si alza e – faccia da Forrest Gump dal passo 'charlottiano' – si improvvisa operaio, autista di tram, pony, magazziniere, cuoco. Insomma, Antonio Pane fa il 'rimpiazzo', sostituendo per poche ore o un giorno intero chi, per un motivo o per un altro, deve assentarsi dal lavoro.

 

Così 'l'ultimo uomo' di Gianni Amelio, interpretato da Antonio Albanese, è 'L'intrepido' guerriero di oggi, senza macchia e senza pudore (al limite coi calzini bucati), ingenuo, sorridente e indefesso factotum in attesa di tempi migliori. E poi Antonio è l'immobilità. Fermo. Sospeso e bloccato a mezz'aria dalla stretta possente delle braccia del signor Stereotipo, vero protagonista di questo intollerabile film, presentato in concorso nella 70esima edizione del Festival di Venezia.

 

Amelio firma un'opera che, partendo dalla drammatica situazione lavorativa italiana, mira ad assurgere a trattato sociale: immigrazione, suicidio, riciclaggio, corruzione, pedofilia, attacchi di panico, mal de vivre. In 104 minuti Antonio vaga davanti a questo vaso di Pandora scoperchiato...senza fare niente.

 

Resta lì, col suo sorriso intontito, col suo sguardo stupito, gli occhi tristi di chi già sa (ma cosa poi?): il figlio musicista gli sbraita contro all'improvviso perchè nessuno vuole suonare con lui; Lucia, la ragazza depressa conosciuta da poco durante un concorso, da di matto in un bar e poi s'ammazza; gli viene chiesto di accompagnare un bambino dallo zio, e alla fine questo si rivela un pedofilo. E lui? Niente, mette la sua borsa a tracolla e se ne va, in quest'atmosfera talmente rarefatta da risultare fasulla, fastidiosa, tanto quanto Antonio stesso.

 

Niente è intrepidamente spiegato, perchè non c'è niente da spiegare: bene e male si eguagliano nella loro mancanza di caparbietà, in questa ferma incapacità di cogliere quella poesia che Amelio brama ma che rimane incagliata in un patetico vittimismo, nella costante e infruttuosa ricerca dello spleen baudelariano che qui diventa unicamente Noia. L'intrepido non è tale perchè non indaga, non cerca una via d'uscita, non ha radici nel mondo che vive e non ha ali per raggiungere il cielo.

 

Amelio ha intrappolato il suo protagonista (e i suoi personaggi tutti) in una dimensione che non è reale, non è onirica, un labirinto pieno di fili che Arianna ha dimenticato di sbrogliare. E poi se ne è lavato le mani, spingendo senza troppa convinzione lo spettatore a formulare quel j'accuse nei confronti della società che proprio non ne vuole sapere di venir fuori, protetto com'è da strati di buonismo, critiche velate e silenzi sterili.

 

Al tutto, poi, non giovano la prima performance sul grande schermo di Livia Rossi, troppo occupata a gestire i movimenti facciali e a scandire piano le parole per dare pur una minima veridicità al suo personaggio, e i dialoghi ridicoli tra il drammatico Antonio Albanese (Quanto ci manci Cetto, tu e il tuo pilu) e il suo figlio sassofonista virati costantemente verso un finale tutt'altro che a sorpresa. Ma che, grazie ad un piccolo espediente, qualche domanda finalmente la tira fuori. Ma l'Albania?


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