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24/11/24 ore

Still Life, di U. Pasolini, un soggetto interessante, un'occasione mancata



In questa opera seconda di Uberto Pasolinigià produttore di rilievo e esordiente dietro la macchina da presa, non più giovanissimo, con la commedia Machan. La storia vera di una falsa squadra  del 2007 si racconta la storia di John May (Eddie Marsan), un piccolo uomo introverso, totalmente dedito a una unica missione: seguire i destini di chi muore in solitudine, organizzarne le celebrazioni funebri, e cercare di rintracciare i parenti per informarli della perdita del si fa per dire caro estinto.

 

Quella di John è ad un tempo vocazione e parte del suo lavoro: corrisponde infatti alla mansione che egli deve esercitare come piccolo funzionario di una circoscrizione comunale londinese.

 

A partire da questo nucleo introduttivo si sviluppa con un'estensione della trama che assume una svolta dopo la messa in esubero di John e l'ottenimento da parte sua di poter almeno portare a conclusione un'ultima ricerca una vicenda narrata con retorica cinematografica buonista, incardinata su una struttura piuttosto scombinata e non credibile.

 

La vocazione del protagonista non riesce a far vibrare le corde interiori dello spettatore (o almeno, le nostre) risultando a nostro parere più come una eccentricità un po' macabra  (nonostante la preparazione delle esequie per i morti senza parenti non sia un'attività inventata di Pasolini) che come un segno di amore verso il prossimo, dando dignità alla morte, quale vorrebbe essere.

 

Le numerose scene in cui May sceglie la musica più adatta a celebrare il defunto di turno in piccole cappelle deserte, la meticolosità funzionariale dell'archivio dei dipartiti che gestisce, ma anche la narrazione dell'unico momento in cui John si apre all'esterno, avviando una relazione affettiva con la figlia dell'alcolizzato e rissoso clochard di cui si trova a seguire, come suo ultimo impegno, i destini: ebbene tutto ci suona forzato, artificioso, senza dunque mai essere poetico, immaginifico, sensibile.

 

La scena finale poi è veramente fuori luogo e ci pare più adatta a un film amatoriale che a un'opera entrata nei circuiti distributivi della sale italiane più importanti.

 

Sarà chiaro a questo punto che non condividiamo affatto il successo di critica riscosso dal film, tanto da ottenere il premio a Venezia 2013 per la migliore regia nella sezione “Orizzonti”, e motivato per esempio in relazione a una sorta di “estetica della solitudine” cui Pasolini sarebbe felicemente riuscito a dar corpo, alla capacità di esprimere con le immagini il travaglio interiore del protagonista, alla delicatezza nella normalità che ha suggerito persino confronti arrischiati con certi personaggi di Kaurismäki.

 

Still Life non è destinato a lasciare grande memoria di sé, di questo siamo certi. A differenza dell'omonimo film diretto da Jia Zhang-ke, vincitore del Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2006 e con il quale non è proprio il caso di confonderlo.

 

Giovanni A. Cecconi

 

 


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