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24/11/24 ore

Sand Storm di Elite Zexter



È in corso in questi giorni a Roma “Asiatica”, festival di cinema orientale che ha in programmazione oltre 40 tra film, documentari e lungometraggi proiettati all’interno del bellissimo Teatro India, sul Lungotevere Vittorio Gassmann. Tra i titoli in concorso vi è “Sand Storm”, lungometraggio della giovane regista israeliana Elite Zexter, uscito all’inizio del 2016 e già presentato con successo in diversi concorsi cinematografici internazionali.

 

Il film è ambientato in un villaggio beduino del Negev, abitato da una tribù araba nomade. La storia, che abbraccia pochi giorni nella vita di una famiglia, si svolge quasi interamente tra la vecchia e la nuova casa del capofamiglia, Suliman, unite da uno stesso cortile. Il titolo si riferisce al deserto che fa da sfondo agli avvenimenti, un deserto che non ha nulla di maestoso, mosso continuamente dal vento che fa volteggiare panni stesi, sacchi neri e sabbia sin dentro le case dai muri scrostati.

 

La scena iniziale del film sembra indicare una realtà tradizionale ma avviata decisamente e positivamente verso la modernità: Suliman e la figlia maggiore Layla stanno rientrando a casa attraverso il deserto, in macchina; la ragazza, vestita in abiti tradizionali e col capo velato, è alla guida mentre annuncia al padre seduto al suo fianco i risultati degli esami scolastici che ha appena ricevuto via mail sul cellulare. Il quadro che appare è quello di una giovane donna emancipata, che studia, ha internet e può guidare la macchina con la piena complicità del padre.

 

All’arrivo del villaggio la situazione rivela come i tocchi di modernità non siano altro che superficie: quella sera infatti si deve fare una festa per accogliere l’arrivo della seconda moglie del padre, all’interno della casa della prima moglie a cui peraltro spetta organizzare musica e ricevimento.

 

La trama finora non è esplicitata, ma si ricava pian piano con lo scorrere della pellicola: questa indeterminatezza iniziale contribuisce a creare il clima di non-detto, di oscurità e ineluttabilità, di sentimenti di ribellione che scorrono sotto le manifestazioni sociali esteriori.

 

La festa è riservata solo alle donne della tribù e spetta alle anziane sostituire la presenza maschile indossando dei baffi finti. Anche Jalila, la prima moglie, li indossa, dando luogo a una delle molte immagini simboliche nel film che fanno intravvedere il miscuglio di sentimenti dolorosi che serpeggiano in quel microcosmo. La poligamia non reca felicità: la sofferenza di Jalila per la presenza di una nuova moglie è speculare a quella di Suliman, perfettamente consapevole di disgregare la sua vecchia famiglia ma incapace di sottrarsi alle regole tribali; e nello stesso tempo mette l’una contro l’altra le donne, che altrimenti potrebbero vicendevolmente aiutarsi.

 

Mentre Suliman avvia la sua nuova vita con la seconda moglie, nella vecchia casa restano Jalila, Layla e le tre piccole sorelline. Jalila scopre che Layla ha un innamorato segreto, conosciuto a scuola ma appartenente ad una tribù ostile. Da quel momento tra madre e figlia scoppia una vera e propria guerra psicologica, in cui la madre vuole mantenere l’ordine tribale impedendo alla figlia di scegliere la propria vita, in contraddizione evidente con il dolore che prova sulla sua pelle per aver accettato senza protestare il secondo matrimonio del marito. Ma quando Suliman interviene per ristabilire l’ordine e impone alla figlia un matrimonio combinato con uno sconosciuto membro della tribù, Jalila fa emergere tutta la sua ribellione prendendo le difese di Layla. In una delle scene finali è racchiuso metaforicamente il significato del film. Layla è fuggita in macchina e imbocca un tunnel di cemento: dall’altra parte la sta aspettando il ragazzo che ama e che sta parlando con lei al cellulare indicandole la strada. Ma a metà del tunnel, Layla spegne macchina cellulare e scoppia a piangere. Nonostante la sua istruzione e il suo spirito libero, non può tagliare i rapporti con la mamma e non può disonorare il padre. La rivoluzione, se ci sarà, camminerà forse sulle gambe delle piccole sorelle.

 

La regista ha dichiarato che il film è il distillato della sua lunga frequentazione ed amicizia con le famiglie arabe del Negev. Figlia di una affermata fotografa, la Zexter ha viaggiato moltissimo con la madre per documentare la vita delle comunità dei beduini. La storia di Layla è comune, così come è diffusa la speranza per ogni madre che la prossima generazione riuscirà a liberarsi definitivamente dalle regole tribali. Il dibattito si sta diffondendo e la consapevolezza su questi argomenti trova sempre più pubblico anche fuori dal mondo arabo. La realtà descritta è complessa, multiforme, e non riguarda solo la condizione femminile: si coglie perfettamente la scissione in atto tra regole e sentimenti anche nel mondo maschile incarnato da Suliman. Il rimprovero ricorrente che gli viene rivolto da Jalila e Layla è quello di scegliere sempre quello che “deve” e non quello che “vuole”.

 

Ma la storia, calata nel mondo arabo, dice qualcosa anche di noi. I sentimenti di Layla e Jalila e i loro sacrifici non ci sono estranei. La testimonianza più evidente sono i fatti di cronaca, anche recentissima, come i fatti di Melito di Porto Salvo, che continuamente ribadiscono quanto sia difficile affermare la propria libertà; lo riscontriamo anche nelle scelte della politica, se guardiamo ad esempio le conseguenze dolorose della legge sulla fecondazione assistita, non abrogata anche a causa della colpevole assenza del voto di molte donne; o all’ultima, grottesca campagna sulla fertilità del ministro della Salute Beatrice Lorenzin.

 

Marta Palazzi

 

 


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