Un divano a Tunisi, film d’esordio della franco-tunisina Manele Labidi Labbé, è stato presentato durante le Giornate degli autori al Festival di Venezia dove ha ottenuto il Premio del pubblico BNL.
Il film racconta la storia di Selma Derwich (Golshifteh Farahani), psicanalista trentacinquenne che lascia Parigi per aprire uno studio nella periferia di Tunisi dov'è nata. Purtroppo pur essendo ottimista, si accorge ben presto che dovrà affrontare notevoli diffidenze locali.
In bilico tra due mondi, la regista, come la sua eroina, sceglie la commedia per ironizzare sulle barriere culturali che separano i popoli. Così la comicità caratterizza a ogni seduta psicoanalitica attraverso divertenti personaggi che sfilano come in una galleria di ritratti, tra eccessi comici, malinconie e interrogativi esistenziali.
Senz’altro originale la scena onirica in cui il fantasma di Freud appare lungo una strada deserta. Bella anche l’immagine dell’attrice franco-iraniana Golshifteh Farahani che avanza sullo schermo sulle note della canzone cantata da Mina, "Città vuota”. Notevole il cast degli interpreti, composto da Golshifteh Farahani, Majd Mastoura Mastoura, Aïsha Ben Miled, Feryel Chammari, Hichem Yacoubi, Ramla Ayari, Moncef Anjegui.
Secondo la regista, dopo la rivoluzione dei Gelsomini nel 2010, pur tra mille difficoltà, la Tunisia ha intrapreso un percorso esistenziale verso la verità e una maggiore consapevolezza. Nel film, inoltre, ella sembra più interessata alla classe media tunisina, più lacerata tra modernità e tradizione, poiché più occidentalizzata.
“L’idea per questo film mi è venuta il giorno in cui ho detto a mia madre che ero in analisi. Ho avuto paura che morisse – ha raccontato la regista -. Per una donna tunisina, musulmana e tradizionalista come mia madre, era decisamente troppo”. Le motivazioni iniziali “di Selma sono semplici e razionali: vuole portare la sua professionalità in un paese che ha appena vissuto una rivoluzione e sta iniziando ad aprirsi, ma soffre di una carenza di psicoanalisti e psicoterapeuti per le classi operaie. Tuttavia la protagonista è tornata nel suo Paese anche per fare i conti con il suo passato. Ristabilire il legame con la storia della sua famiglia, per arrivare a confrontarsi con essa, le sarà d’aiuto per portare a termine il suo personale percorso terapeutico. Il ritorno alle origini inizia lentamente a scalfire la sua maschera”.
Ecco un’intervista alla regista e a Golshifteh Farahani (da L’invité)