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25/11/24 ore

White Noise, il film di Noah Baumbach ora su Netflix che divide pubblico e critica



di Camillo Maffia

 

Immaginate una situazione classica: un gruppo di amici o di familiari che decide di vedersi un film, però ognuno vuole vedere una cosa diversa. Uno ha voglia di guardare un film distopico fantascientifico, uno di quelli in cui qualche disastro mette a repentaglio la salute di un'intera comunità.

 

Un altro invece vorrebbe guardare un film impegnato, che si concentri sulla drammaticità della condizione umana, l'incomunicabilità, il senso della vita. Il terzo ha disperatamente voglia di vedersi una commedia brillante, magari un po' surreale o perché no, perfino romantica. E il quarto invece ha bisogno di staccare da una dura giornata, perciò implora gli altri di mettere qualche film d'azione, possibilmente un thriller.

 

Impossibile mettere tutti d'accordo, direte. E invece i nostri spettatori potrebbero benissimo vedersi White Noise – Rumore bianco, il film di Noah Baumbach appena sbarcato su Netflix tratto dall'omonimo romanzo di Don De Lillo, che a modo suo sta già diventando un film di culto, dividendo pubblico e critica.

 

Forse non per tutti è piacevole trovarsi davanti a un ritratto così impietoso della società contemporanea, dipinto con un'ironia ai limiti della satira e uno sguardo apocalittico sui generis, in cui le attualissime paure legate all'inquinamento ambientale e alla sperimentazione medica sono spettri che a loro volta rimandano a fantasmi senza tempo, dalla morte alla solitudine.

 

La famiglia? La culla della disinformazione mondiale. Il supermercato? Un luogo di trapasso, sospeso tra la vita e la morte. Gli ambienti per noi più familiari assumono un volto completamente nuovo e per certi versi inquietante in questa lettura marcatamente assurdista della nostra quotidianità, dove i dialoghi si accavallano nell'incapacità di comprendersi e ascoltarsi, e dietro la rassicurante maschera della routine si celano tragedie e pericoli incombenti, segreti inconfessabili e angosce esistenziali.

 

Film d'apertura alla 79° Mostra del Cinema di Venezia, White Noise ha l'indiscutibile pregio della cura impressionante di ogni dettaglio di forma e contenuto. Nessuna battuta è casuale, nessuna inquadratura è scontata; il cast è eccellente, le luci e le riprese sono personali e imprevedibili: le musiche di Danny Elfman scorrono in sottofondo come un commento perfino più caustico alle scene in cui la famiglia di Jack Gladney (Adam Driver) si trova alle prese con un disastro ecologico mentre la moglie Babette (Greta Gerwig) ha strani vuoti di memoria e comportamenti indecifrabili.

 

Professore di studi hitleriani, Gladney sta crescendo quattro figli insieme a Babette, arrivata come lui al quarto matrimonio, quando scopre che la moglie assume un farmaco misterioso, il Dylar, che sembra impossibile rintracciare in qualunque catalogo. In questo contesto si verifica un incidente ferroviario e una terrificante nube tossica si leva sulla città, che dovrà essere evacuata: la famiglia si troverà costretta ad affrontare fughe e quarantene prima di tornare a una normalità che si rivelerà ben lungi dall'essere tale.

 

Una pellicola che sembra voler erodere spietatamente ogni nostra rassicurante certezza, in cui i discorsi di elevato livello culturale si fanno inconsistenti come le nuvole di Aristofane e tutto ciò in cui ci vediamo costretti a riporre fiducia, dai media alla medicina fino ai nostri stessi affetti, si rivela fallace e precario.

 

Allo spettatore viene negata anche l'ultima consolazione, quella d'una speranza eterna, con il corrosivo monologo di suor Hermann Marie (Barbara Sukowa): tutto ciò che resta è il supermercato stesso, punto di partenza e punto d'arrivo di una civiltà incentrata sul consumo in cui la partita tra la vita e la morte sembra giocarsi fra gli scaffali colmi dei migliori cereali di marca…

 

 


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