Nel ritratto di Alessando de’ Medici, di Pontormo, 1550, il giovane duca è raffigurato mentre su un piccolo foglio, “con uno stile in mano”, disegna la testa di una donna. Ritratto che “donò poi esso duca Alessandro a Taddea Malespina, sorella della Marchesa di Massa” (dice il Vasari). Probabilmente, Pontormo ha inciso nei segni del piccolo foglio il profilo di Taddea, mettendo in scena il desiderio di Alessandro.
POESÌ di Rino Mele
Le persone, le cose e il vuoto che le divora
Un uomo esce col suo cane. Camminano insieme
lungo la strada che scompare. Cosa sente
la cavalla grigia e bianca di Pascoli quando l'uomo che ne guida il trotto
è appena morto?
Il nostro urlare non appartiene al linguaggio, rifiuta la parola, la sintassi
che ripete l'ombra quando rispecchia
il silenzio e le si oppone. Il leone cigola nel pozzo, il secchio sbatte
lungo le pareti, i bambini
impauriti di cadere sentono ripetutamente ruggire. Ha l'animale
esperienza della morte? Un solco
s'apre, e s'è già richiuso, la cagna avverte che
quella caduta non le appartiene, si chiede
cosa sia diventato il cucciolo morto, lo tocca col muso, lo solleva tra i
denti, sulla riva sta ad aspettare che torni a guaire.
L'inconscio continuamente grida
la mancanza,
segna la strada che scende ripida e spinge nel burrone: il linguaggio
elude quel vuoto su cui la parola si posa, nasconde
ciò che manca: la parola ladra finge quello che non ha e mette maschere
al delirio
che ha conosciuto l’infanzia, nell'altalena della presenza degli oggetti
e del loro sparire.
In questo gioco dell'onda, il frangersi e ritirarsi nel nulla della sabbia, il
bambino si modella lenta-
mente come i cerchi interni di una conchiglia. L’attesa si rinnova
delusa, il desiderio, impariamo a ricominciare
a cucire il dolore nell'infinito sottrarsi - alle
nostre mani bambine, al nostro sguardo, all'ascolto - della beante
presenza di un volto.
Nel circo rotondo dell'infanzia ci siamo educati
a ritrovare vuote le mani e, orrendamente, a invidiare dove quella
pienezza appare. Poi, verranno le parole, gli accorti segnali, i fischi nella
notte, lo stridio del legno, il topo impaurito
che si rifugia tra le zampe del gatto, l'insistere delle mosche sui nostri
occhi che piangono, e non conosciamo.
Il terrore e la pietà delle antiche tragedie sono chiusi
nelle dita della scena senza tempo dell'infanzia
sulla quale si ripete lo strazio, la mancanza,
la madre e sempre lontana
esce dalla porta che nel muro s'apre e la divora.
________________________________________________________
Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
Leggi l'intera sequenza di POESÌ