Nei versi che scrivo per questa rubrica il momento della scrittura coincide con il tempo della pubblicazione (e, quindi, della lettura). Rarissime le eccezioni, oggi è la seconda volta che pubblico su Agenzia radicale, miei versi già editi. Sono quelli con cui termina Il corpo di Moro, del 2001, edizioni 10/17 (primo premio Delta Poesia 2002), riedito quest'anno dalle edizioni Oédipus, e arricchito, reso trasparente dall'analisi critica di Niva Lorenzini.
Ancora non sappiamo se Moro sia stato ucciso davvero tra le fauci della Renault rossa, se abbia trascorso la sua ultima insonne notte a via Montalcini. L'anno scorso è stato pubblicato, per l'editore Ponte alle Grazie, di Paolo Cucchiarelli L'Ultima notte di Aldo Moro. A pag 320 possiamo leggere: "Il medico legale affermò che sembrava che Moro fosse stato al mare, in quanto era abbronzato (...). Qualche anno dopo, nel 1999, Lombardi pubblicò i risultati delle sue analisi relative al caso Moro (...): Una prima analisi dei proiettili rinvenuti nella Renault 4, vicino al cadavere di Moro, rivelano fenomeni di ossidazione con caratteristiche simili a quelli che si verificano attraverso l'azione dell'ambiente marino".
Soltanto il giorno dopo, il 10 maggio 1978, mentre l’Italia è stupefatta della propria viltà, Miriam Mafai pubblica, un’inquietante immediatainterpretazione delle modalità del delitto: “Moro è stato ucciso in piedi, la faccia rivolta agli assassini; d’istinto ha portato al cuore la mano sinistra, un dito era lacerato da un proiettile. Indossava la canottiera e la camicia, non aveva le scarpe. Tracce di sabbia sono state trovate infatti non soltanto nei risvolti dei pantaloni, ma anche sui calzini, mentre le scarpe appaiono pulite”.
POESÌ di Rino Mele
L’alba del 9 maggio 1978
Devono aiutarlo a entrare in una cesta di vimini,
scenderlo per le scale. Mario Moretti
e Germano Maccari si tolsero i cappucci, volevano
che questa volta li potesse guardare,
uno scambio di sguardi
per risarcirlo della morte. Moro
finse di non vederli, non si lasciò sottrarre il luogo
della vittima, che è guardata
e non guarda. Quella mattina finiva la loro rivoluzione,
due uomini consegnavano alla colpa
un inutile disamore. Rannicchiato nella cesta
che portavano al garage, seppellito
nella biancheria da lavare
(sembrava grigio
quel rosso nell’oscurità del mattino)
lo aiutarono a trarsene fuori. Si ritrovarono vicini,
occhi negli occhi, e Moro
forzava se stesso a non vedere il vuoto
che stringeva
quelle nere pupille, a non
avventurarsi per altre scale ora che aveva sceso
quelle da cui sapeva di non tornare. Disteso,
gli gettano addosso un plaid,
ma fino agli occhi, nella speranza che si volti,
vorrebbero essere loro l’ultima cosa che guarda,
ma lui vede solo il muro
bianco, quel muro è un prato
marino, una stanza, il soffitto è basso, c’è dentro
una donna grande, le mani
larghe di fiori, il seno coperto di latte,
ha appena un lenzuolo
come fosse scappata da un ospedale. È una dea,
Demetra. O è la madre,
sfinge e sirena. Ora gli chiudono sul capo
il leggero panno. Sparano
con due armi, i colpi ad Anna Laura
Braghetti sembrano sputi
smorzati, come infiniti morti
fossero arrivati fin là, in quel freddo teatro,
a mostrare con la saliva la gloria della loro allegria.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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