Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

21/11/24 ore

Poesì di Rino Mele. Cucirsi gli occhi e finalmente vedere



Questi trentadue versi (col titolo Aspettano la mia voce) li ho scritti nell’ottobre del 1997 e pubblicati nel mio Il sonno e le vigilie, edizioni Sottotraccia, 2000. Li scrissi pensando ai morti che ho amato e non ritrovo, nemmeno nelle strade del mio paese, e inseguo, spinti da un vento freddo. Versi che leggo oggi che non c’è più alcuna illusoria pace e tutto si è amaramente capovolto e stravolto.

 

C’è solo un teatro, il luogo di estrema contraddizione di Na Dubrovka - la tragedia che si consumò tra ceceni e russi il 26 ottobre 2002, tre giorni dopo il suo inizio - nel quale si può gridare piano la poesia: dove, tra finzione e pretese del reale, si aprirono cunicoli strettissimi improvvisamente chiusi da una crudele calce inaspettata. 

 

Lì siamo tutti, proprio tutti - tra sala e scena - intorno alla nostra agonia.

 

 

 

 

RINO MELE

 

 

Cucirsi gli occhi e finalmente vedere

 

Il tempo chiude l'azione, rompe le strade

sfinisce l'ansia nella cruda 

ripetizione del male. Ciò che è accaduto

è per sempre, ha cucito 

le mani, le dita alle dita, non c'è niente

da rifare, restaurare, aggiustare,

quello che è stato ti ha legato, 

la condanna ha messo il morso alla pena,

una maschera triste, non sfuggi a chi 

vuol fermare il tuo volto, 

controllare se hai commesso 

quello che non diresti

mai nel foglio di notizie, la sconfitta 

che ti porti addosso. 

Come una ferita, la tua vita

a guardarla da lontano è una serpe

chiusa. Stretta tra il ferro 

e il legno, la piccola gabbia dove un topo 

incredulo urta contro l'aria 

che lo respinge, stride, 

sconvolge il grido sottile, chiede 

di conficcare i denti 

nel suo uccisore, il lamento. Trappola 

costruita nella misura 

del mio corpo (Dedalo 

è il minotauro). Le stanze 

dove il tonno chiede salvezza

e l'acqua si arrossa quando ormai 

alla sperata finitudine s'appresta.

Come fare a cancellarsi 

dalla vita, il piede alzato nella corsa, 

la mano nella richiesta di aiuto? 

 

 

_________________________________  

 

  

Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.

 

 

 

Leggi l'intera sequenza di POESÌ