“Il consociativismo con i poteri, siano essi di governo o di opposizione, è un antico vizio del giornalismo italiano che alla lunga ha finito per minarne la credibilità”. Un vizio di cui sarebbe privo Enrico Mentana, scelto da Fabio Martini come “presentatore migliore” del suo La fabbrica della verità, edito da Marsilio.
Non nascondiamo di aver avuto un sussulto nell'ascoltare queste parole; se non altro perché la memoria (se non ci inganna) e il curriculum dell'attuale direttore del Tg La7 ci dicono qualcosa di diverso - un'altra “verità”, appunto - che si può cogliere anche da alcuni passaggi di questo viaggio nella propaganda “occulta” da Mussolini ai giorni nostri. In particolare, quando l'autore fa riferimento alla scelta di Berlusconi di affidare nel 1992 la direzione del tg di Canale 5 “al più bravo giornalista dell'ultima covata Rai”. Allora i telegiornali Mediaset decisero di cavalcare la cronaca nera con l'enfatizzazione di “ogni fatto di violenza”, anche nel “tentativo di indebolire il governo di Romano Prodi”, altro presunto alieno a certe logiche seguite dalla “politica per sfruttare i media a proprio vantaggio”, e pertanto considerato degno di partecipare al dibattito della scorsa settima alla Feltrinelli della Galleria Sordi a Roma.
La contraddizione appena descritta ci consente di entrare nel cuore del problema che affligge l'ipocrita mondo della comunicazione, che in filigrana affiora anche dall'opera del giornalista de 'La Stampa', se la si guarda da un punto di vista meno convenzionale.
Il racconto di Martini percorre, infatti, le differenti strade che di volta in volta i governanti hanno seguito per “conquistare l'immaginario degli italiani utilizzando radio, film, cinegiornali, televisione, pubblicità, web.... Nondimeno, dalle “trame della manipolazione della realtà” emergono – per chi vuole vederle e casomai ce ne fosse ancora bisogno rimarcarle – anche le complicità di una categoria che oggi paga il fio in termini di perdita di autorevolezza e considerazione al cospetto dell'opinione pubblica. E se ai tempi del Duce, persuasore occulto tra veline e Istituto Luce, le attenuanti di regime erano più che legittime, dalla “narcosi democristiana” del primo dopoguerra in poi il cosiddetto presunto “quarto potere” ha meno specchi su cui aggrapparsi.
Si racconta, per esempio, di quando “i politici invadono le tv, determinando un boom del genere talk show”, che diventa poi padrone della scena televisiva. Siamo nella cosiddetta seconda Repubblica, che Marco Damilano descrive – cita Martini - come “Repubblica della Rappresentanza” . Lo stesso Damilano – giornalista del gruppo Repubblica-L'Espresso – che ci piace evidenziare quale prezzemolino ovunque proprio “nella nuova arena pubblica nella quale la rappresentatività è sostituita dalla popolarità, il consenso dal successo, l'autorevolezza dalla notorietà”. Non è il solo, ovviamente, ad avere il privilegio di far parte della ristretta compagnia di giro di commentatori, spiegoni e maestri del pensiero nell'odierna fabbrica della realtà manipolata. Basta farsi un giro nell'affollato palinsesto televisivo per averne desolante contezza.
Rispetto a qualche anno fa la situazione appare per giunta ulteriormente degenerata. Nell'era della post-verità e delle fake news, bisogna infatti fare i conti anche con il web, più in generale con le nuove tecnologie che stanno rivoluzionando il modo di ricercare il consenso, alimentando il corto circuito tra potere e opinione pubblica. La vittima designata è la stessa: la verità.
La cosa è nota. Se ne discute ormai a più riprese. Il dibatto e l'analisi del fenomeno sono in atto e si arricchiscono sempre di nuovi contributi. La fabbrica della verità è uno di questi: un utile strumento – come dice Mentana - per "ricordare ciò che già sappiamo" (o che dovremmo sapere), arricchito da una accattivate ricostruzione storica, che tuttavia pecca per qualche “subliminale” indulgenza corporativa.
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