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24/12/24 ore

La terra che io ti indicherò


  • Elena Lattes

Partendo dal testo ebraico e da alcune importanti osservazioni sulle definizioni, Alain Marchadour, sacerdote assunzionista che vive da diversi anni in Israele, offre in “La terra che io ti indicherò” pubblicato nel n. 162 dei Cahiers Évangile e riproposto nella traduzione italiana dalle Edizioni Dehoniane, un’interpretazione della triangolazione Dio-uomo-terra, rimanendo su un piano puramente intellettuale ed esegetico, senza entrare nel campo della politica e dell’attualità.

 

L’autore sostiene la centralità della terra nella Bibbia, intesa come dono divino, ma che rappresenta anche una serie di simboli: “un fenomeno al contempo storico, letterario, teologico, socio-politico e teologico-politico. Ciò ne fa un luogo eccezionale appassionante e complesso, ma anche una specie di laboratorio di come dovrebbero essere tutte le terre del mondo”.

 

In ebraico esistono due parole per indicare la terra: “haaretz” e “adamà”. La prima è più “teorica”, indica un luogo ed è usata nella Bibbia oltre duemilacinquecento volte, fin dall’inizio della Genesi in occasione della creazione del mondo. La seconda, ricorre “solo” 231 volte e ha una connotazione agricola e familiare, ha la stessa origine etimologica di Adamo e viene utilizzata per indicare l’essere umano in genere: “ben adam”, ovvero, letteralmente “figlio della terra”.

 

Marchadour ispirandosi ad alcuni esegeti e storici moderni, si concentra soprattutto sul valore del primo significato, analizzando alcuni passi biblici e riportando diversi salmi, in uno dei quali, per esempio, l’haaretz è “descritta come [se fosse] un essere vivente”.

 

Un dono importante quindi, un’assegnazione di una meta che è anche conquista e lotta, perdita, desiderio e nostalgia e poi ancora riconquista. Una terra sulla quale il popolo ebraico, spiega l’autore, ha costruito la sua storia “con una riflessione così profonda e così costante” che, a quanto si sa, non ha pari nella produzione letteraria e teologica dell’umanità.

 

Non un oggetto da adorare, però, o, peggio, da idolatrare, tant’è che nell’esilio il popolo ebraico ha saputo rielaborare la propria identità, con la valorizzazione della diaspora e la conservazione della presenza divina non “più nel tempio, ma nella Torah, la Legge. Come dirà il poeta Heinrich Heine (1797-1856), durante l’esilio di Babilonia la Torah è diventata una patria portatile.

 

Il Cristianesimo ha spostato questa centralità del luogo sul Regno divino che “non conosce frontiera alcuna”. Un Regno “già presente e contemporaneamente ancora da realizzare”. Nonostante, quindi, Gesù, ebreo, nasca, viva e muoia nella terra di Israele, il Cristianesimo si concentra piuttosto sulla diffusione della propria concezione del mondo fra tutti i popoli, introducendo così l’utopia (mi si permetta questa riflessione del tutto personale e non accennata nel volume) di religione intesa come una caratteristica sovranazionale, slegata da culture specifiche.

 

Il rapporto con la terra, nel cristianesimo, assume un’altra forma. Anzi due:  la prima è la “fedeltà alla storia della salvezza che si è compiuta nella morte e nella risurrezione” e che rappresenta quindi il messaggio evangelico. La seconda è il pellegrinaggio e il ritorno fisico nei luoghi dove Gesù è vissuto e ha predicato.

 

Il testo che, è bene sottolineare, è assolutamente politically correct, si incentra infine sul lavoro degli apostoli e della relativa letteratura. Una riflessione, quindi, tutta interna al cristianesimo destinata in particolare all’ambiente dell’evangelizzazione.

 

 


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