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08/05/24 ore

Le macchie nere del racconto, di Franco Piol


  • Giovanni Lauricella

Due personaggi irrisolti sono il fulcro intorno a cui ruota una trama teatrale, che si dipana da una matassa piena di molteplici fili conduttori, storici, etici, politici, esistenziali, ma soprattutto di una umanità descritta nel suo profondo più contraddittorio, in una sequenza senza tempo come in un racconto onirico. La reminiscenza di un tempo lontano, quello della lotta partigiana, rituffata negli anni della guerra del Vietnam e delle grandi speranze che culminarono nel ’68, rivive in una dimensione intima, personale di Toni, il protagonista, nei confronti di un suo amico, Berto, morto da partigiano, che lui ricorda con dolore.

 

Berto, che era diventato partigiano suo malgrado, un non-eroe quindi, è l’angoscia di Toni che non è potuto esserlo. Il tema principale è il dramma dell’uomo che viene travolto dalla storia sia se ne prende parte fino a pagare con la vita, sia con il rimorso se ha voluto starne fuori.

 

La narrazione dell’espiazione, o dell’impossibilità di essa, viene recitata in “prosa poetica”, molto piacevole da leggere, per un teatro performativo in cui la danza degli attori e il suono del sax si snodano  in un coinvolgente scenario che non è altro che quello del teatro d’avanguardia degli anni ’60.  Una prima versione del testo ci fu nel 1969 in forma "libera", con il titolo Resistenza ieri, oggi, cui fece seguito nel 1987 quella in forma teatrale tipo kombinat descritta nel libro.

 

Le macchie nere del racconto è una storia di personaggi sospesi in una narrazione nella quale si trovano significati nascosti “da rileggere”-  come dice l’autore - “  per capirla meglio”, ma che anche potrebbe essere quella di ciascuno di noi di fronte agli accadimenti attuali.

 

Il concetto che Franco Piol coglie come efficace dinamica teatrale è che probabilmente in ognuno di noi risiede una parte insoluta della propria esistenza, un debito con la verità o con la coerenza etica, un disturbo esistenziale che ci accompagna come un’ombra nel proseguimento della vita, infine una possibile “macchia nera”. 

 

Bisognerebbe anche conoscere Franco Piol per capire come scrive, argomento che sarebbe un altro capitolo da affrontare per apprezzare al meglio questo libro, ma è difficile definirlo perché è un vulcanico autore di numerosi romanzi racconti e poesie, di cui  cito solo: Poesie in concertoTana libera tuttiGente del tempo che verràTeatro monello; nato a Roma nel 1942, autore di vari testi teatrali e regista, fondò il teatro stabile Gruppo del Sole con Roberto Calve nel ’71 ed è in attesa di pubblicare La littorina di latta e Racconti dall’al di qua.

 

Notevole in questa edizione è la prefazione di Selene Gagliardi, che ci dà una chiara visione del contesto culturale dell’opera, scritta nel ’63 quando Franco Piol era giovanissimo, e di quello che è stato il teatro d’avanguardia, più propriamente neo-avanguardia o post-avanguardia, quel teatro che poi  si è perso perché è mancata la spinta delle lotte del movimento operaio del ’68 e quella voglia di sperimentare che troppi sacrifici costava.

 

Per una fortunata coincidenza, inoltre, tanti personaggi emersero proprio in quegli anni, una sollevazione culturale orizzontale unica che non avrà paragoni negli anni a venire. È proprio questa l’importanza del libro di Franco Piol, Le macchie nere del racconto,  documento importantissimo di un teatro che sempre più difficilmente avremo in futuro, collocato in quella area di movimento politico che produceva aggregazioni e situazioni come gli happening. Nella stagione romana degli anni Sessanta le «cantine» erano il nostro teatro Off (Off Brodway erano chiamati i piccoli teatri sorti fuori da Broadway, la nota strada dei teatri di New York).

 

Nomi come le cantine o teatro off a pensarci bene erano fuorvianti, quasi criptici, sarebbe stato meglio chiamarli teatro di lotta politica, molto più comprensibile e divulgativo. Per dire alcuni tra i primi nomi più importanti che possono venire in mente: Carmelo BeneCarlo QuartucciLeo De BerardinisCarlo CecchiMemè PerliniVasilicòGiancarlo NanniManuela Kustermann ecc. ecc.

 

Quasi tutti operanti a Roma, mentre a livello nazionale dovrei citare molti altri nomi, ma leggendo la storia del teatro di questo glorioso periodo manca quasi sempre quello di Dario Fo, curioso no? Il loro modo di fare teatro è ladestrutturazione del linguaggio e della parola, dello spazio tempo e la sua frammentazione, il miscuglio fra  popolare con  classicità e contemporaneo, l’interdisciplinarietà (come nel caso di Franco Piol), l’abolizione del palcoscenico e il coinvolgimento del pubblico, ma anche tanto altro: un vero patrimonio che è stato la ricchezza delle rappresentazioni che con tanta passione e fervore si sono viste in quei tempi.

 

Il libro è arricchito da una nota dell’editore Croce, che riporta un documento introvabile: il Manifesto per un nuovo teatrodi Pier Paolo Pasolini, testo imprescindibile per capire al meglio quello che è successo negli anni ’60.

 

 


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