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26/12/24 ore

L’Italia deviata, di Luigi O. Rintallo. Come è stato sviato il corso della storia italiana


  • Luigi O. Rintallo

Pubblichiamo ampi stralci dalla prefazione che Luigi Oreste Rintallo ha premesso al testo L’Italia deviata. La storia sabotata da gogne e toghe, dove sono raccolti articoli e interviste tratti dalla rivista «Quaderni Radicali» e reperibile su Amazon. 

 

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L’Italia deviata ha il suo nucleo centrale nelle ricostruzioni dei processi che riguardarono il manager di Stato Felice Ippolito, il presentatore tv Enzo Tortora e il senatore Giulio Andreotti.

 

Quei tre casi giudiziari hanno influito non poco sullo sviluppo e sull’interpretazione delle vicende politiche, deformandone il corso in modo tale che il Paese è stato altro da quello che poteva essere. Ognuno di questi procedimenti, nella rispettiva epoca in cui prese forma ed occupò lo spazio mediatico, ha impresso una decisa sterzata al corso della storia italiana.

 

Vale per il primo, risalente agli anni ’60 dell’esordio dei governi di centro-sinistra, che non stroncò soltanto la carriera dell’ingegner Felice Ippolito, ma determinò pure l’arresto di una prospettiva di sviluppo industriale che avrebbe certamente mutato lo scenario economico italiano. Oltre a mettere fuori gioco una personalità capace di incidere sulle decisioni del piano energetico italiano, quella vicenda ha in qualche modo ridotto grandemente la propulsione della nuova stagione politica. È stato il primo sintomo dell’ingolfamento che di lì a breve avrebbe poi comportato il blocco del motore politico, indispensabile per favorire il processo riformatore al quale puntava il governo di centro-sinistra che, per la prima volta, vedeva la partecipazione del Partito socialista dopo la rottura del fronte comune con il Partito comunista.

 

Se il caso Ippolito contribuisce allo spegnimento anticipato della carica innovatrice del decennio dei ’60, il processo Tortora negli anni ’80 evidenzia i danni provocati dalle leggi emergenziali sulla giustizia e segna un punto di non ritorno nella tracimazione dell’ordine giudiziario rispetto all’equilibrio del complessivo assetto istituzionale. L’arresto del presentatore televisivo Enzo Tortora coincise, infatti, da un lato con un uso della legge sul pentitismo che ha finito per deturpare lo Stato di diritto e, dall’altro, sancì la totale irresponsabilità della magistratura che poté così configurarsi come un vero e proprio potere, al di fuori di ogni controllo.

 

Agli inizi dei successivi anni ’90 risale il terzo caso qui ricostruito, il cosiddetto “processo del secolo”, la lunga odissea nei tribunali di Palermo e Perugia che ha coinvolto il senatore a vita e più volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Conclusosi con un’assoluzione a metà, il procedimento ebbe la pretesa di riscrivere la storia della Repubblica, marchiandola come una storia di infamia dove il potere politico finisce per sovrapporsi con Cosa Nostra. Una torsione dei fatti che ha diffuso nella società sconcerti e convinzioni, spesso destituite di riscontri effettivi, difficili da estirpare e che, a loro volta, hanno contribuito ad alterare il panorama politico.

 

Collocato allo snodo cruciale della nostra storia recente, individuabile nel biennio 1992-1993, il “caso Andreotti” ha rifornito a lungo il carburante per alimentare una macchina produttrice in serie di tendenziose interpretazioni da parte di politici e giornalisti schierati. Da esse è scaturito, come ha ricordato nel luglio dello scorso anno Matteo Renzi alla presentazione del libro di Martelli, Vita e persecuzione di Giovanni Falcone (La Nave di Teseo; 2022), “il racconto per cui la mafia e lo Stato… si sovrapponevano… : è falso e non è pensabile che, siccome in certe trasmissioni televisive antimafia i ‘professionisti dell’antimafia’ hanno caricaturizzato l’immagine di Falcone, rivendicando un’eredità, che è tanto più assurda pensando che viene da coloro i quali in molti casi hanno contestato Falcone, bisogna avere il coraggio di qualcuno che dica con chiarezza: guardate, non è così [...] La storia di questo Paese è stata scritta negli ultimi trent’anni a una voce sola ed è una voce che non diceva la verità”.

 

Una mancata verità prodotta, ancora una volta, dalla micidiale e velenosa mistura fra l’iniziativa giudiziaria e la gogna mediatica, prontamente allestita da agit-prop travestiti da giornalisti. Atti che deviano le traiettorie degli eventi storico-politici, provocando un sabotaggio di cui si possono ben immaginare le drammatiche conseguenze che ricadono sul destino di tutti gli Italiani. Il nostro Paese non riesce così a discostarsi dalla tabe che infetta l’origine della Repubblica e che risiede in una logica da guerra civile permanente. […]

 

A promuoverla, in questi ultimi trent’anni, la convergenza di interessi opachi, per cui tanto le oligarchie economico-finanziarie, detentrici del controllo sui media, quanto gli assetti burocratico-corporativi, divenuti auto-referenziali con il venir meno della griglia politico-istituzionale dei partiti sostenuta dal post-Jalta, hanno operato orientati dalla bussola del continuismo avverso a qualunque cambiamento volto a potenziare la solidità della democrazia. Cardinale, da questo punto di vista, è stato proprio il teorema giudiziario sulla collusione della politica con la mafia, perché coi corollari che ne conseguivano ha permesso di realizzare la piegatura forzante che ha irrimediabilmente deformato la vita pubblica italiana.

 

È significativo che tale teorema poté manifestarsi a pieno solo dopo l’attentato a Giovanni Falcone e che, a imporlo sul piano mediatico-giudiziario, furono soprattutto i critici del magistrato ucciso a Capaci. Fra loro, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando Cascio fu tra i più accaniti detrattori del lavoro da magistrato di Falcone, tanto da presentare un esposto al Csm costringendolo a difendersi. Il contenzioso derivava dal rigore con cui il magistrato siciliano procedeva nelle sue indagini, tanto da diffidare dei falsi pentiti: proprio questo gli rimproveravano i “professionisti dell’anti-mafia” parolaia come Orlando, ai quali evidentemente premeva altro che non il perseguimento dei reati commessi. […]

 

Quanto questo “altro” poi potesse sovrapporsi alle mire della criminalità organizzata, poco importava: tant’è che le inchieste promosse a partire dal già menzionato teorema sono evaporate e, come si è in seguito scoperto, proprio diversi dei sedicenti eredi di Falcone e Borsellino, nelle Procure e nella cosiddetta “società civile”, paiono essersi attivati più per far esaurire i loro filoni investigativi che non per proseguirne davvero la “buona battaglia” contro il crimine. […]

 

Dove abbia portato quest’azione lo viviamo oggi nella condizione di confusione e incertezza politica, risultato della mai conclusa transizione seguita al 1992-1993. In concomitanza col processo a Giulio Andreotti (la cui figura, pur contraddittoria, merita una analisi a parte ndr), quel biennio vide pure il dispiegarsi dell’inchiesta milanese di Mani pulite: trent’anni dopo, modi e finalità di essa appaiono ai più sotto ben altra luce che non quella di lotta contro la corruzione.

 

Ad avvedersene per tempo furono pochi e la presente edizione de L’Italia deviata ne dà conto, aggiungendo al trittico relativo ai casi Ippolito, Tortora e Andreotti, altre tre terne di articoli ed interviste per un totale complessivo di dodici testi. Della stagione di Mani pulite è proposta una lettura innanzi tutto politica, che muove dalla considerazione espressa dal direttore di «Quaderni Radicali» Giuseppe Rippa, per il quale il bilancio dell’inchiesta milanese può riassumersi nel fatto che “avendo mirato a un unico obiettivo, che era tutto politico e del tutto disinteressato alla vera lotta contro la corruzione, alla fine ci siamo ritrovati con la totale distruzione di un’intera area politico-culturale”.

 

A sparire dall’orizzonte politico italiano è stata alla fine l’area liberal-socialista e radicale, dal momento che – com’è risultato chiaro con gli eventi successivi – la molla, che avviò il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, rispondeva preminentemente a un intento restaurativo contrario a un ampliamento e a una crescita della partecipazione democratica in Italia. In questo senso, l’attacco concentrico a Bettino Craxi trova la sua motivazione nell’essere la sua leadership il principale ostacolo al processo di restaurazione, avviatosi dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Il diniego di Craxi alla proposta di Enrico Cuccia, perché dal governo si faccia garante della ristrutturazione finanziaria e delle privatizzazioni, lo condannò irrimediabilmente al pari del suo impegno come rappresentante ONU per la riduzione del debito dei Paesi in via di sviluppo.

 

Dell’esistenza di un nesso fra gli interessi dei soggetti finanziari e i modi in cui si pose fine alla cosiddetta prima Repubblica, attraverso l’offensiva giudiziaria di Tangentopoli, riferiva già nel 1994 Giuseppe Rippa nel libro intervista Lo stato delle cose, quando attribuiva alle oligarchie di potere italiane la perseveranza del loro disegno gattopardesco, volto a tutelare sé stesse

 

Altrettanto anticipatorie della realtà mistificatoria e poco limpida delle istanze di rinnovamento cresciute attorno alle forzature e alle torsioni processuali dell’inchiesta Mani pulite, sono le tre interviste del 1992 riprese dall’agenzia «Oblò», supplemento giornaliero (allora) della rivista «Quaderni Radicali» uscito tra il novembre 1990 e il giugno 1993. Ciascuno dei tre interlocutori (Paolo Ungari, Raffaele Della Valle, Massimo Pugliese)  si soffermava su aspetti che verranno allo scoperto negli anni successivi: dal falso moralismo del giustizialismo ai problemi determinati dagli eccessi di potere della magistratura inquirente, ancora adesso oggetto del confronto apertosi sulla riforma della giustizia.

 

Gli ultimi tre articoli riportati hanno origine dagli interventi di analisti politici, quali Claudio Veraldi ed Ernesto Galli della Loggia, che hanno contribuito – a quasi tre decenni dai fatti accaduti nel 1992-93 – a una più consapevole ri-lettura degli eventi. Da essa traspare il riconoscimento di come antipolitica e giustizialismo abbiano per l’appunto deviato la storia d’Italia, finendo per compromettere i livelli di autonomia del Paese e condannarlo a una condizione di oggettiva subalternità.

 

 


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