di Adriana Dragoni
È incominciata così. Con una lunga conversazione tra Jan Fabre, artista belga di fama mondiale, e Sylvain Bellenger, direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte, umani luoghi tra i più belli del mondo. Bellenger parlava di Napoli. Questa città - si dice- è eccessiva e contraddittoria. Ma possiamo anche dirla, per un certo suo fascino, “carnale”, che, in lingua napoletana, significa il verace sentimento che può prenderti usque ad medullas.
“Carnale” è anche l'esoterismo napoletano, come quello del culto di san Gennaro, fatto di sangue, che si coagula e si squaglia, e di fede appassionata. Simbolo “carnale” è anche il corallo rosso, quella sorta di polipo che vive negli abissi più oscuri del Mediterraneo e che si lavora, in antichi laboratori, a Torre del Greco, cittadina dell'hinterland napoletano. Compare, questo corallo dal colore rosso-sangue, anche in alcuni quadri nelle sale della pinacoteca di Capodimonte, a indicare la Passione di Cristo.
Conversavano, girando proprio in queste sale, Jan Fabre e Sylvain Bellenger. E forse da qui è nato, nell'artista belga, il desiderio di fare delle opere di corallo apposta per Capodimonte. Ed ecco, così, le opere coralline ora in mostra. Opere anch'esse “carnali”, fatte di corallo rosso-sangue e di umanità.
Sono in rapporto stretto con Napoli, con il suo popolo più verace e con lo stesso museo di Capodimonte. Infatti questa mostra – è stato detto dal professore Stefano Causa - non è solo di Fabre ma è di Capodimonte. Infatti Causa, che, insieme a Blandine Gwizdala, della mostra è il curatore, la ha arricchita con altre opere, molte della pinacoteca napoletana, che così ora evidenzia la contemporaneità dei suoi tesori.
Ce ne sono soprattutto del Seicento, secolo che Raffaello Causa, padre di Stefano, prediligeva e ne fece una mostra bellissima, che non poté inaugurare solo perché pochi mesi prima dell'inaugurazione se ne era andato via da questo mondo. Era la sua mostra, sebbene altri, con oscena arroganza, poi se ne sia attribuita la paternità.
E proprio il pathos del Seicento napoletano, un insieme di scienza e di religione, di ragione e di sangue, sembra esprimere Fabre in queste sue opere di corallo. Che, insieme a delle opere coperte d'oro da lui prodotte nel corso degli anni e ad alcuni disegni tracciati con il suo sangue, costituiscono un insieme di oro lucente e di rosso brillante.
E sono cuori, croci, teschi, pugnali, spade: simboleggiano un'intima guerra, con l'ironia tormentata di un pensiero profondo. È il barocco contemporaneo di Fabre. Che, artista anti-classico, anti-accademico e straordinariamente creativo, batte strade nuove, creando degli oggetti viventi. Ogni sua opera è un unicum. È vero, vi sono due croci di corallo di grandezza simile; eppure sono molto diverse tra loro. Ognuna ha la forma della croce, il simbolo forse più famoso del mondo. Ma sono come singoli individui con una vita propria.
L'uno è un corpo vivente del mondo animale, in cui scorre il sangue, rappresentato da un percorso di semi di corallo: ha una vita fisica e spirituale, e con le rosse ali si eleva e va verso l'alto. L'altro ha una superficie ruvida come la scorza di un albero, una corteccia che è ricoperta da un'altra corteccia, fatta da una sorta di rigonfiamenti che ci suggeriscono le circonvoluzioni del cervello umano: natura e scienza.
Così i rametti che spuntano da questa croce ricordano, si, l'albero della vita di masaccesca memoria (la Crocifissione di Masaccio del polittico di Pisa, ora a Capodimonte) ma anche i nervi, quei neuroni a specchio che tanto hanno interessato Fabre, del quale è noto l'amore per le scienze. E si riferisce ad Albert Einstein il suo autoritratto in corallo, in cui caccia la lingua. È una linguaccia lunghissima, che ci fa tornare alla memoria la “lingua di Menelik”, quel gioco carnevalesco in voga, non molto tempo fa, tra i venditori ambulanti in giro per Napoli. Questa mostra è un interessantissimo insieme di bellezza, di simboli e di rimandi continui.
Ma Fabre non si ferma qui. Fino al 30 settembre sarà visibile, nella chiesa del Pio Monte della Misericordia, a cura di Melania Rossi, in dialogo diretto con le Sette Opere di Misericordia,The Man Who Bears the Cross (L'uomo che sorregge la croce), una scultura in cera a grandezza d'uomo.
Sempre fino al 30 settembre, è allestita, nel cortile d'onore del Museo Madre, con la curatela di Andrea Viliani, Melania Rossie Laura Trisorio, The Man whoMeasures the Clouds (L'uomo che misura le nuvole), in un'inedita versione in marmo di Carrara. L'opera è un rifacimento della versione in bronzo che fu posta, nel 2008, in Piazza del Plebiscito e, nel 2017, creando un effetto stupendo, sul terrazzo dello stesso museo.
Invece, nella galleria Studio Trisorio, è esposto, a cura di Melania Rossi e Laura Trisorio, Tribute to Hieronimus Bosch in Congo (Omaggio a Hieronimus Bosch in Congo), una selezione di opere realizzate completamente con gusci di scarabei. Sono dei grandi pannelli e delle sculture in mosaico ispirati alla complessa vicenda, di potere e di morte, della conquista belga del Congo.
L'ispirazione storica s'intreccia alla simbologia medievale de “Il giardino delle delizie” il capolavoro di Bosch.
Nel frattempo a Capodimonte, c'è, sempre fino al 30 settembre, “Un restauro in mostra” con un'opera di Antonio Canova, studiata alla perfezione e la mostra, imperdibile, “Caravaggio e Napoli” Altri due protagonisti della scena culturale mondiale.
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