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22/12/24 ore

Hip Hop in Italia ieri e oggi: la sottocultura negli anni Novanta



Se si guarda allo stato attuale del rap italiano, viene difficile immaginare che le sue origini fossero tutt’altro che Fabri Fibra, Club Dogo e Marracash. O forse no. Forse il rap italiano odierno è la naturale evoluzione di un processo lungo che ha visto una cultura inizialmente di nicchia (e che aspirava a restare tale) inglobata in circuiti commerciali.

 

Nell'articolo che segue sul rap italiano negli anni novanta, Massimiliana Urbano ripercorre le tappe principali della sottocultura hip hop in Italia, cercando di sottolineare l’influenza che alcuni fattori come l’imitazione del modello americano e la situazione politica e sociale italiana hanno avuto sul fenomeno che si è sviluppato in modo del tutto particolare fino ad arrivare alla situazione odierna.


 

Erano gli anni Ottanta e, mentre in America nomi come Grandmaster Flash, Africa Bambaata e Sugar Hill erano leggenda, in Italia l’hip hop lo ascoltavi solo se eri un malato della musica o un privilegiato che poteva permettersi di comprare l’ultima novità del momento. Oppure lo potevi vedere in televisione quando davano Wild Style, Style Wars o Flashdance.

 

È cosi che arriva anche in Italia la cultura hip hop. Negli anni Ottanta la maggior parte di coloro che vi si avvicinarono lo fecero prima attraverso la musica e i film e poi attraverso il b-boying, poi diventarono bravi rappers e mcs. Ma lo fecero soprattutto attraverso l’imitazione del modello estetico americano.

 

Quello era il segno di riconoscimento, un mezzo per comunicare attraverso l’estetica l’appartenenza a quella determinata cultura. Ed era un mezzo che funzionava perché effettivamente la gente si riconosceva per strada.

 

Come racconta Primo Brown: “Cielo aveva conosciuto Danno a via del Corso; si erano squadrati per come erano vestiti: calzoni larghi, Timberland, cappellino storto, collanine; si erano salutati e si erano scambiati i numeri di telefono”.

 

All’inizio si rappava in inglese, o più o meno quello che sembrava inglese, e ci si incontrava in certe zone della città per le sfide tra b-boys. A Torino, dal 1983, i ragazzi si radunavano sul marmo del Teatro Regio. Ragazzi sconosciuti allora, coraggiosi sperimentatori di una pratica ritenuta non degna, nomi notissimi e importantissimi oggi, pietre miliari della cultura hip hop italiana, la cosiddetta “old skool” italiana. Stiamo parlando di The Next One, Josta, Atomic, Maurizione, Stefix, Igor, Quick Silver e Lowdy NCN più noto dopo come Mc col nome di Dj Gruff.

 

A Roma a Galleria Colonna si radunavano settimanalmente i b-boys tra cui Mc Shark, Dj Chino, Crash Kid e Ice One. E poi nel 1988 aprì Babilonia, un negozio d’abbigliamento che all’epoca faceva tendenza e la cui attrazione principale divenne da subito la consolle. Per cui si poteva ascoltare di tutto, dai pezzi commerciali di James Brown a quelli più impegnati dei Public Enemy. Il Babilonia divenne un punto di riferimento importantissimo per i b-boys e tutti gli appassionati di hip hop.

 

A Milano le radici sono al Muretto vicino a Piazza San Babila, dove sono cresciute dagli anni ottanta intere generazioni di rappers, b-boys e writers. Più avanti in via De Amicis, si trovava WAG, capostipite dei negozi street wear a Milano e in Italia.

 

Insomma all’inizio l’hip hop è stato non una moda, non uno stile musicale, ma una vera e propria cultura, una forma d’identità...

 

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