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14/11/24 ore

James Senese. Il guardiano della terra antica



di Raffaele Cascone

 

Vado a Miano, a vedere James Senese, a casa sua, 50 anni dopo la mia ultima visita del 1973. Percorro a piedi i tre chilometri della strada di campagna in discesa che dalla fermata “Frullone” della metropolitana 1, porta alle palazzine dello storico condominio Ice Snei, a poca distanza dal gigantesco murales dedicato a James.

 

La metropolitana 1 in quella zona diventa una ferrovia extra-urbana, a distanza ridottissima dal centro. Sulla strada tra i pochi palazzetti spuntano ancora strade di campagna verso antiche masserie, come nella famosa foto di copertina del primo album, storico, Napoli Centrale.

 

È da questo che vorrei fare una proposta a James: «realizziamo un album del cinquantenario del primo disco, con una foto di copertina scattata nello stesso posto, che però ritragga i sopravvissuti di faccia, non di spalle come nel primo album. Nel 2023 la tua arte è di nuovo all’avanguardia dopo mezzo secolo: un manifesto che anticipa i prossimi cinquant’anni e li indirizza come hai già fatto negli ultimi cinquanta». 

 

La discesa per la strada di campagna è resa piacevole dalla brezza, insolita in un pomeriggio di primavera inoltrata, mentre appaiono sulla destra, senza transenne, in continuità con il marciapiede, le croci bianche a schiera del cimitero monumentale inglese. Qui riposano i caduti della seconda guerra mondiale. James è figlio di un militare afro-americano delle truppe alleate che invasero l’Italia, e di una giovane napoletana.


Nella nascita di Napoli Centrale e nel disco di debutto, ancora oggi un best seller a distanza di cinquant’anni, ebbi un ruolo determinante. Dopo di allora andai a trovare James una sola volta, anni dopo, in sala di incisione mentre registrava ‘Ngazzate nire: gli consigliai di eliminare la base orchestrale e di lasciare sotto la voce in sottofondo un solo strumento scheletrico-minimale. Seguì il mio consiglio e fu un successo. In questi ultimi cinquant’anni mi sono sempre chiesto se James avesse attualizzato adeguatamente il suo potenziale e se la sua immagine mediatica fosse adeguata e soprattutto se non essersi mai spostato dal suo borgo di Miano lo avesse isolato. Molti conoscono la mia vecchia formula che da qualche anno ho corretto: “oggi Leonardo Da Vinci sarebbe un Leonardo della comunicazione mediatica altrimenti nessuno lo scoprirebbe, nemmeno tra cinquecento anni”. 

 

Una formula che sarebbe risultata vera solo in parte e temporaneamente, poiché tutto è cambiato: da oggi le marginalità diventano protagoniste.


James ci accoglie direttamente nella sua sala di incisione domestica dove, senza convenevoli, lancio la mia idea per il cinquantenario di Napoli Centrale. James mi ferma garbatamente: «A me non si applicano queste valutazioni, non appartengo al contesto mediatico di cui parli, io il contesto lo creo, ascolta...».


Fa partire la registrazione di un suo brano che non conosco. Mi chiedo in automatico: è una novità? I miei circuiti analitici, alla Shazam, tentano di decifra- re lo stile, paragonandolo a milioni di brani in memoria: percepisco che si tratta del James di sempre, contemporaneo e nel contempo fuori tempo. Sono spiazzato: appena sulla base musicale entra la voce, mi parte un tremito dal plesso solare che si estende verso le gambe e verso la faccia, mi commuovo. James si accorge che mi ha smosso con un solo colpo: ha toccato direttamente la mia pancia, le mie origini lontane e ha mandato in corto circuito il mio spirito critico. Sì, James, non importa il contesto e il mercato, i media non contano. Il linguaggio paleolitico, prima della scrittura, non è scisso, non parla del cuore, ma parla direttamente al cuore e lo riporta, organicamente, nel tremito primordiale. Il brano finisce.

 

Sono senza parole. James non è solo un Maestro, è il guardiano della terra anti- ca e presente, sempre incantata. James non è semplicemente espressione della sua terra, oggi è la sua terra che è diventata una sua espressione e della sua terra James è ora custode e re. James re di Napoli. Non poteva essere che lui, la Sua graziosa Maestà, ad aprire a sorpresa la festa dello scudetto del Napoli allo stadio Diego Armando Maradona, con il suo ‘a solo’ che ha aperto clamorosamente la manifestazione. Qualche ora prima James mi aveva confidato: «Oggi è tutto sottosopra, bugiardi, ognuno è per sé stesso, crede di difendere sé stesso, ma, facendolo in modo sbagliato, si danneggia. Di recente ho dovuto rifiutare di partecipare a dei programmi televisivi dopo averli valutati: Il loro problema è che mi vogliono fare apparire come loro vogliono che io appaia, è questo il gioco. Io sono me stesso, non ho bisogno di accostarmi a nessuno, né ho bisogno di stare con qualcuno per promuovere la mia immagine e la mia musica. Il compito delle TV dovrebbe essere la scoperta dell’autenticità se la vedessero, invece mi associano subito a delle loro immagini precostituite o a cose che ho già fatto, come portarmi indietro agli Showmen che certo sono stati un successo, una parabola, otto anni di lavoro, ma avevamo 18 anni per uno, ci facevamo ancora la zuppa di latte... Poi vado a Milano, vado in Slovenia, faccio il pienone da tutte le parti, sold out, la gente che grida.

 

Chi vuole capire ce l’ha la capacità di farlo. In Italia e qua nel sud del sud, siamo uccisi, siamo proprio rovinati. Abbiamo questa madonna di cultura, questo sentimento molto forte che viene dal passato, ci hanno sempre stroncato e continueranno a farlo, ma siamo pure noi che facciamo le marionette come quella che si è spogliata nuda perché ha vinto il Napoli. Parliamoci chiaro: noi abbiamo fatto la rivoluzione e io continuo a farla». 

 

***** 

 

Raffaele Cascone - James, tu ed io siamo nati nello stesso giorno, il 6 gennaio 1945, tra tanti della nostra generazione che si sono persi per strada, restano pochi come te.

 

James Senese - Sono spariti, nel senso che non hanno scelto. Non sono andati lontano nel mondo, ma sono semplicemente spariti. 

 

R.C. - Con la maturità sei diventato consapevole di tutte quelle tue risorse interne che forse erano segrete anche per te?

 

J.S. - Non sono segrete, io amo l’amore, la vita, amo molto chi ho vicino. Io sono un protettore, proteggo gli altri dal male. Sembrano affermazioni estreme, ma non è così, è esattamente il contrario. 

 

R.C. - Questo spiega perché non ti sei mai mosso dal posto in cui sei nato…

 

J.S. - Non ne ho mai avuto voglia. Da giovane qualche pensierino di espatriare lo feci ma dopo che mi sono sposato e, dopo il primo figlio, ho capito che non me la sentivo di abbandonare la mia famiglia, mia madre, mio nonno e mia nonna, ancora vivi, né la famiglia che stavo creando. Già da giovane sentivo questa forza che mi portava a proteggerli.

 

R.C. - Ora che non ci sono più e che da qualche mese anche tua moglie ha lasciato questo mondo, continui a prenderti cura dei tuoi figli.

 

J.S. - Continuo a tenerli nel mio guscio e soprattutto a mostrargli che la vita non è quella banale, c’è dell’altro che deve essere scoperto, per andare oltre ciò che appare. 

 

R.C. - La musica è il modo in cui tu fai questa ricerca…

 

J.S. - La musica è la scoperta di me stesso. La musica sono io. Il sassofono sono io. Sono nato per essere una nota musicale. È strano, se ci riflettiamo, sono sessant’anni che sono ancora qua ad esplorare il nostro mondo e non mi fermo. Vedo e sento qualcosa che non tutti vedono, so dove andremo e cosa faremo, siamo anche immortali, dobbiamo capirlo, nessuno vuole capirlo, andremo in paradiso, non quello che intendono loro, andremo a vivere la nostra vita ed io cerco nella musica di essere un extraterrestre vicino al nostro Creatore. Noi ci stiamo sempre, è la morte che ci fa paura. Chi sa perché Dio ha creata questa situazione, per farci soffrire, forse perché abbiamo fatto soffrire. Però siamo eterni. Se riusciamo a capire che tutti gli esseri lo sono, forse il mondo ce lo vivremmo in un altro modo.

 

R.C. - C’è qualcuno che si accorge di questa peculiarità della tua vita e della tua opera quando ti incontra e di trovarsi davanti a un essere speciale?

 

J.S. - Lo vedo da un po’ di tempo, grazie alla mia musica. È strano, dopo un concerto in una chiesa, il prete mi ha preso da parte e mi ha detto: «Lei dice e dà delle cose che noi preti non riusciamo a dire, non riusciamo neanche a scriverlo, lei viene da un altro mondo». Questo mi ha molto colpito, nemmeno io so che dico delle cose così “sacre”. Il brano ‘O sang’ è proprio questo, «prego ‘o Signore nu miracolo ovèr, prego ‘o Signore che ferma sta terra, quanta sanghe dinto ‘a terra, lacrime d’à gente, ‘o sanghe do’ popolo». Ho anticipato tutto ma resto anche là a pregare perché io ci credo, perché io vedo che deve succedere qualcosa di importante per cambia- re tutto il nostro sistema. Quello che è intorno a noi non cambierà mai, succederanno cose ancora peggiori, ma solo Lui potrà darci la pace e la libertà che noi vogliamo e meritiamo di avere. 

 

R.C. - Chi sono le persone che entrano in sintonia con te?

 

J.S. - Quelli che arrivano, lo vedo dalla loro espressione dopo il concerto, dopo i bis, che vorrebbero trattenersi ancora, non se ne vanno, il bis non è il solito bis, loro vogliono ancora restare in questa dimensione. Uno viene e mi dice “mi hai fatto piangere”, un altro viene e mi stringe la mano vibrando ed io sento questa forza di sentimenti che man mano sta uscendo fuori nel pubblico che mi viene a cercare... 

 

R.C. - Ci sono posti dove trovi che c’è più sensibilità verso la tua arte?

 

J.S. - Ci sono posti dove c’è meno confusione mentale. Qui da noi a sud c’è troppa carne a cuocere. Incontro gente in altre parti che cerca qualcosa in più, nel sud sembra che non scegliamo, ci mangiamo tutto. Rimango sbalordito quando entro in scena: si alzano tutti in piedi e l’applauso è da le mille e una notte. 

 

R.C. - Comprendono l’onestà, l’autenticità, che sei fuori dal mercato.

 

J.S. - Fuori dal mondo, se no che vengono a fare... 

 

R.C. - Il brano con cui ha debuttato il giovanissimo Sal Da Vinci è tuo (ringrazio Camilla Salvatore per avermelo segnalato)

 

J.S. - Lo avevo scritto per me, con Peppe Lanzetta, ma sono amico del padre di Sal. È molto speciale perché, io ho visto Sal, ma lui non vede sé stesso come dovrebbe vedersi. Per esempio, se ascolti il brano che ho scritto per Valentina Stella, è memorabile. Ho scritto per pochi, anche per Nino D’Angelo. 

 

R.C. - Una svolta più pacata rispetto alle origini…

 

J.S. - I primi Napoli Centrale erano talmente estremi che avevamo molta difficoltà a fare entrare gli altri nel nostro lavoro: io e Franco Del Prete eravamo una forza di sentimento micidiale. Volevamo che la gente entrasse nei nostri sentimenti attraverso i quali vedevamo il mondo, già da allora, in modo molto diverso. Franco ed io eravamo più che marito e moglie, eravamo un tutt’u- no: in ogni cosa che facevamo eravamo entusiasti delle scoperte che facevamo nei sentimenti e in ogni parola. Era qualcosa di diverso dal resto che ci circondava. Nel testo di Napule t’è scetà ci son cose sconvolgenti, come in altri brani con testi che potrebbero sembrare fantascientifici... 

 

R.C. - Gli interpreti che eseguono tue composizioni sembra che si trasformino, che appaiono aspetti insospettati in loro?

 

J.S. - No, non è che loro si trasformano. Desidererebbero solo vedere la vita come la vedo io, ma non riescono veramente a crearlo. Ma c’è dell’altro: se ascolti il brano di Valentina Stella, Ammore scriveme, è qualcosa di eterno, bello, una passione che esce, è una Napoli di sentimenti forti e veri. Io oltre ad esserne il compositore, canto con lei una parte del brano, ed è memorabile. 

 

R.C. - Ti hanno mai proposto di insegnare?

 

J.S. - Sono convinto che in ogni cosa in ogni arte, in ogni dimensione, si nasce, non si impara, se no diventi un matematico, è un po’ come gli orchestrali che imparano a scrivere e leggere la musica: fanno gli orchestrali...

 

R.C. - Tu sei in una ricerca continua, è appena uscito il tuo ultimo disco. Alla fine della giornata sei contento di quello che hai prodotto o ti dici che come ricercatore potresti fare di più?

 

J.S. - No, non dico potrei fare di più, sarebbe matematica, io faccio di più. Ogni momento che io mi muovo scopro qualcosa di nuovo. Poi io non cerco, io sto lì e all’improvviso scatta una molla. La molla può essere una visione davanti a me, o un pensiero che arriva all’improvviso, un flash di quello che io vorrei vedere, un flash di mia figlia o di mio figlio, come li vedo e come li vorrei vedere, flash che arrivano all’improvviso. Ho composto da poco un brano magico che dà pace, strumentale, ho simulato l’armonica a bocca. È una poesia: chi l’ascolta troverà una luce che si accende. Questo brano mi fa provare qualcosa. 

 

R.C. - Mi fai a pensare a Gabriel Tarde che dice che l’artista è sempre in attesa che gli arrivi l’ispirazione dell’opera e che nello stesso tempo l’opera è in continua ricerca di qualcuno che la faccia esistere…

 

J.S. - L’intelligenza riesce a fare costruzioni molto importanti. Io sono terra terra, ma riesco a camminare dentro al fuoco.

 

R.C. - Come si svolge la tua giornata?

 

J.S. - Dormo poco, massimo quattro cinque ore. Appena mi alzo, la prima cosa da fare è guardarmi intorno, nella mia caverna e mentre mi guardo intorno c’è qualcosa che mi chiama dentro il mio guscio, da lì devo sedermi e devo pensare, solo io, non c’è un altro pensiero al di fuori della creazione, dell’opera... 

 

R.C. - ... e quante ore le dedichi…?

 

J.S. - ...Tutte le ore. I miei figli sanno che quando sono li dentro a comporre non entrano. Aspettano che io esca fuori. Compongo sul piano a partire dalle situazioni, dalle immagini che arrivano, da un suono, è un miscuglio. Esco poco, solo quando è necessario. Non mi piace uscire, so già quello che trovo intorno a me: mi fanno essere il Mito. A me il mito non basta, sto da un’altra parte. 

 

R.C. - Quale è stato il tuo ultimo spostamento per un concerto?

 

J.S. - L’altro ieri a Milano, due apparizioni, al Dal Verme e al Conservatorio. Al Conservatorio tutti i maestri mi hanno reso omaggio, non avevano mai sentito quello che ho portato, ho eseguito quella che è la musica to- tale, né strumentale, né vocale, un viaggio di un’ora e mezzo con il mio gruppo JNC (James Napoli Centrale). Il prossimo concerto sarà in Slovenia ... 

 

R.C. - Per te è più gratificante suonare al nord?

 

J.S. - Questa musica è stata scoperta dal nord, dove cercano di più, a sud c’è tanta distrazione, faremo concerti in tutta Europa. 

 

R.C. - La tua produzione musicale è costante?

 

J.S. - Compongo in ogni momento in modo non finalizzato al disco. Nella mia cassaforte musicale ci sono già ottanta brani fermi che prendo e comincio ad esplorare. Quelli che mi arrivano di più li metto in mezzo e comincio a lavorarci, ci vuole tempo. Scelgo i dieci brani che in questo momento mi attirano. Essendo composizioni in avanti verso il futuro, trovo tutto quello che voglio, trovo tutti i momenti e comincio a grattare, a spezzare, e costruisco poi il brano definitivo. 

 

R.C. - Ci sono studiosi della tua vita e delle tue opere?

 

J.S. - Molti adepti che vogliono entrare nella mia dimensio- ne. Hanno scritto quattro o cinque libri su di me. Poiché In Europa non c’è niente e arriva tutto dall’America e un po’ dall’Inghilterra. Forse è per questo che questa mia musica esiste e sta entrando dappertutto, perché viene da lontano ma anche da vicino. Nella nostra musica napoletana la tradizione è rimasta la tradizione e non la puoi assolutamente ignorare, i nuovi appaiono e poi spariscono, io sono lì sempre, dall’altra parte. Dove sono gli altri della mia generazione ancora presenti nella nostra cultura? Abbiamo i nuovi, i vecchi non ci sono più e infine gli stagionali ... 

 

R.C. - Come vorresti essere ricordato?

 

J.S. - Io non voglio essere ricordato. Io Miles Davis, Coltrane, non me li ricordo, per me sono vivi, non sono mai morti. Non parlo a livello dei ricordi. Quando metto Miles o Coltrane, stanno qui, è così per tutti. 

 

R.C. - Come vedi il mondo di oggi?

 

J.S. - Viviamo tutti tra guerre, siccità, virus: il massacro dell’umanità. Non abbiamo paura più di niente, abbiamo riempito il mondo delle nostre schifezze, stiamo cancellando la nostra terra, le nostre anime, la nostra carne. Uccidiamo, rubiamo, non per paura ma per la nostra avidità che sta dominando quella parte nascosta dentro di noi che è il diavolo, il potere. Siamo dominati dai poteri forti che hanno messo la paura dentro di noi facendoci credere che la realtà sia questa: distruggere il mondo e noi stessi. Come sempre noi non guardiamo mai verso l’amore, ma solo verso noi stessi; ormai è troppo tardi. I nostri creatori stanno arrivando e non sarà una festa bensì una distruzione dalla quale si salveranno solo le anime d’amore che saranno destinate a costruire un mondo nuovo.

 

******

 

Ripercorro la salita verso la stazioncina della metropolitana del Frullone in un piccolo autobus, che si fa attendere per un’ora: lenta preparazione al salto sul trenino della metropolitana che si lancia in discesa vorticosa verso il Vomero a velocità ipersonica verso il Policlinico e poi nel centro città. Sono l’unico italiano a bordo, tra passeggeri giovanissimi di numerose etnie, una straordinaria varietà multinazionale e linguistica, rivelatoria della mutazione, per molti incomprensibile, del pianeta e della coscienza, già avvenuta e consolidata, tanto presente da rischiare di passare inosservata, soprattutto da parte di chi ha interesse a ignorare tutto ciò... una mutazione che sta preparando qualcosa di imprevedibile, che spetta a noi orientare nel segno della creatività nell’arte e nella profonda vicinanza e comprensione tra esseri umani con la loro terra vivente e incantata. 

 

(foto di Camilla Salvatore - da MuMag / periodico di informazione musicale)

 

 


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