A l'età di 92 anni ci lascia Giorgio Albertazzi. Lo ricordiamo con questo testo pubblicato su Il MESE di Quaderni Radicali nel Novembre 2011, frutto di un'intervista nella sua casa romana.
L’artista è un curioso illuminato di pazzia che passa da uno stato ad un altro cercando la sua quiete. Il movimento continuo. La sua pace. Potrai tentare di collocarlo, ma una volta fatto ciò capirai di avergli dato solo un nome. Un nome che non vuol dire nulla, perché il nome appunto rimane fermo. E fermo non è l’artista. Giorgio Albertazzi. Attore. Non basta. Giorgio Albertazzi. Scrittore, intellettuale e attore. Questo può dare l’idea. Forse. Può solo dare l’idea.
Maestro. Così molti lo chiamano. Glielo ricordo. Mi ascolta e risponde: “Io insegno quello che non so”. Rimango disorientata, non me lo aspettavo. C’è una storia però dietro quell’affermazione. Decide di narrarmela. Ne nasce un piccolo racconto che come una scatola cinese di volta in volta si schiuderà miracolosamente svelando tante microstorie custodite l’una dentro l’altra. Tutto da quella frase che mi ronza ancora nella testa “io insegno quello che non so”. Lui mi guarda. Allarga un sorriso e comprende la necessità di levarmi da quel dubbio.
Così inizia dicendomi che la frase in questione non è proprio la sua ma «è stata presa in prestito da Roland Barthes, uno dei più grandi semiologi del mondo. Quando era rettore alla Sorbona, in un suo discorso d’apertura dell’anno accademico, espresse il concetto secondo il quale ci sono tre fasi nella vita. La fase in cui si insegna quel che si sa. Questa è la fase “professorale”. Poi c’è una fase che viene dopo in cui si insegna quello che non si sa e cioè si cerca insieme agli altri. Questa è la fase del teatro. Poi c’è n’è una terza durante la quale non si insegna più niente. È la fase della Sapientia, che però non raggiungiamo mai.
Allora io dico che “insegno quello che non so”, nel senso che non ho un metodo da applicare. Di solito il limite delle scuole, soprattutto di teatro e di arte in generale, la pensava così anche Picasso, è quello di tentare di applicare un metodo, ma non esiste un metodo nei confronti del fatto artistico. Esistono tanti metodi quante sono le persone. Si tratta semplicemente di cercare insieme all’altro».
Ora tutto comincia a farsi più chiaro. Semplice. Posso solo fermarmi e sentirlo parlare, come quando da bambini si rimane immobili davanti ad un libro di favole che qualcuno ti sta leggendo. Il mondo intorno può crollare, ma tu vuoi solo ascoltare il seguito. Arrivare alla fine. Così adesso. Le tante domande che avevo segnato sul mio piccolo blocco bianco sono sparite. Sono inutili. Lui continua e parla di altri «due maestri che insegnavano. Uno è Socrate e l’altro è Gesù di Nazareth». Li definisce i suoi modelli. Veri maestri.
Capisci subito il perché quando comincia a dirmi cosa intende per vero maestro, colui che ha «...la capacità di coinvolgere senza pressioni, senza coercizioni, evitando di esercitare un ruolo autoritario». Ovviamente anche lui, Albertazzi, per sua stessa ammissione quando fa lezione nelle scuole impartisce regole e nozioni, ma allo stesso tempo comprende l’importanza di «...lasciare ognuno libero di esprimersi. Bisogna sempre cercare di togliersi di dosso il potere come azione sugli altri. L’autorità di maestro è un’autorità impalpabile, che non si basa su ruoli istituzionali. A volte il tuo vero maestro non è necessariamente quello che ha il ruolo di maestro ma può essere uno che incontri per due minuti, ci hai parlato e ti ha aperto una finestra sul mondo». Un po’ quello che stava accadendo a me.
Mi trovo nel cortile della sua casa romana. Parla con me come se mi conoscesse da sempre. Senza distanze. Sono piacevolmente sorpresa. Lascia trapelare la sua verità. La stessa verità che lo lacera sulla scena quando, offrendosi ad un dialogo con il pubblico, sembra rivolgersi proprio a te. A te singolo spettatore. Diventa il personaggio. Senza rendere visibili le scissioni tra il sogno/teatro e la realtà. Per lui non esistono. Si lascia attraversare completamente dal ruolo e dalle parole del testo che lo plasmano come creta. Non posso allora fare a meno di chiedergli qualcosa riguardo alla sua maniera di “recitare” e di concepire il teatro.
Ma raccolgo qualcosa di più. Risponde infatti prendendo spunto da Cechov che «... in uno dei suoi scritti racconta di quando vide Eleonora Duse in Russia. Cechov dice chiaramente di aver compreso, solo nel momento in cui l’ha vista recitare, perché il teatro del suo paese, la Russia appunto, fosse povero. Perché non aveva la Duse. Per tutto lo spettacolo Cechov aveva avuto l’impressione che la Duse non dicesse parole di altri ma dicesse parole sue. Allora quando tu reciti e le parole dei personaggi le fai tue, sembrano dette da te... è qui che avviene un processo strano, quasi alchemico, un po’ misterioso... di transfert... mediatico... di dolore anche. Non voglio esagerare dicendo queste cose, però sono vere, basta pensare ad Artaud, ai grandi inventori di teatro che hanno sofferto nella carne per fare teatro. Il teatro è rivelazione, rivelazione di sé. Spesso è scoperta di sé, quindi ha anche un valore psicoanalitico.
L’individuo con il teatro scopre se stesso. Solo in tal senso il teatro è davvero un atto creativo, qualcosa che ha a che fare con l’invenzione. Qualcosa che sta tra l’immaginazione e la scienza. Una specie di sintesi fra le due cose. Il teatro, proprio per questo suo essere, dovrebbe avvenire quando capita e chiunque potrebbe farlo di fronte agli altri. Quando uno, ad esempio, si rivolge a qualcuno perché crede di aver scoperto qualcosa... Ecco... il naturale desiderio di raccontare la scoperta... quello è già teatro. Quindi il fatto di inserire il teatro dentro delle regole, ripetendone i meccanismi lo fa entrare, in un certo senso, all’interno di una sorta di automatismo che è esattamente il contrario dell’espressione artistica. Insomma. Il teatro non è aneddoto. È espressione... non è aneddoto».
Mentre parla continuo ad osservarlo. Comprendo che per quanto io possa sforzarmi, guardando il suo volto non posso fare a meno di pensare a Shakespeare. Non solo perché lo ha interpretato in maniera ricorrente nel corso della sua carriera, ma anche perché ne ha tradotto alcune opere riuscendo a trasferire quei versi di un passato così lontano nel nostro presente, in un’epoca diversa e in una cultura diversa, senza per questo intaccarne il senso profondo. Un compito arduo, anche pericoloso perché in un certo qual modo la traduzione è un tradimento. Lui lo sa e me lo conferma.
«Tradurre è sempre tradire - dice - ... però c’è tradimento e tradimento: c’è un tradimento volgare e c’è invece un tradimento che ha in sé il desiderio di capire nel profondo. È necessario conoscere molto bene l’autore, sapere che lessico usa, conoscere il suo ambiente, la sua cultura... quali sono le sue parole. Shakespeare è un autore che spazia in zone misteriose dell’essere e del divenire e questo non facilita le cose. Avendolo tradotto capisco bene cosa significa trovarsi a risolvere i problemi straordinari che i suoi versi propongono: le sue parole sono cariche di sfumature, sono fonte di molteplici incomprensioni... di veri e propri malintesi. Non a caso è uno degli autori più popolari, ma allo stesso tempo è tra i meno capiti. Molte delle sue parole infatti non possono essere trasferite nella nostra lingua, semplicemente perché in essa non esistono nel medesimo significato che lui ha conferito nel testo originale. Allora bisogna fare altro. A tal proposito ricorro a Voltaire che diceva che bisognava tradurre non la lettera ma lo spirito. Ed è proprio in questa cosa che risiede la grande difficoltà. Quindi il lavoro di un traduttore, soprattutto di un traduttore alle prese con Shakespeare, è un lavoro difficile... delicato che ha come punto d’arrivo una comprensione reale rivolta allo spirito dell’opera, che solo grazie a questo tipo di comprensione appunto può rivivere in un’altra lingua. In un altro tempo, rimanendo attuale».
Ho un ultimo dubbio. Nel prepararmi a questo incontro mi è capitato di leggere un’intervista risalente al 1973 dove la persona che avevo di fronte dichiarava “sono un attore con la coscienza infelice... perciò mi agito e cerco di uscire dalla trappola. Per uscire dalla trappola scrivo, ma forse non basta”. Questa manciata di parole mi aveva fatto comprendere quanto complesso fosse il groviglio di pensieri e sentimenti che si annodavano nella sua anima di artista. Difficile sciogliere quei nodi. Io gli chiedo cosa lui realmente intendeva dire all’epoca e se qualcosa è cambiato rispetto ad allora.
Mi risponde come se non attendesse altro, spiegandomi che tutto questo passava e passa da una considerazione di carattere generale che applica alla vita e anche al teatro e che gli arriva da Picasso «...il quale diceva che “ogni soluzione è una trappola” mentre, pensa, noi esseri umani cerchiamo sempre, soprattutto, soluzioni. Il teatro ad un certo punto mi sembra una soluzione invece non voglio che lo sia, perché io sono un attore ma prima ancora uno scrittore. Uno scrittore che scrive in scena ma non basta. Non faccio che scrivere dalla mattina alla sera, avrò sette libri miei mai pubblicati, ho scritto quattordici o sedici commedie, testi di teatro tutti rappresentati da me. Eppure spesso sento dire “Albertazzi è un grande attore!...È un grande attore e pure scrittore!”. Ma io proprio in questo non mi riconosco. Mi chiedi se qualcosa è cambiato rispetto ad allora? Io ti rispondo che sono ed ero uno scrittore e un attore... e la mia coscienza rimane infelice».
(da Il MESE di Quaderni Radicali - novembre 2011)