Oltre a essere di gran lunga l’opera più nota dell’intera produzione statunitense, Porgy and Bess è stata quella dalla storia certamente più travagliata e questa versione, in scena al teatro Erkel di Budapest, non fa eccezione, anzi.
Ira Gershwin, autrice del testo, l’aveva disposto a chiare lettere nelle sue ultime volontà: Il cast dell’opera, nelle sue edizioni successive, dovrà sempre, assolutamente, essere formato da cantanti neri.
Il senso e la ragione di questa condizione, fortemente condivisa anche da suo fratello George e da Du Bose Heyward, l’autore del libretto, fu di preservare l’autenticità della storia. Anche a costo di una limitazione della sua diffusione.
Tanto che quando il titolare dell’agenzia americana che ne tutela i diritti concesse il nulla osta all’Opera di Budapest non si aspettava che poi qualcuno pensasse di fare di testa sua. Eppure per scopi artistici ma non solo, così è accaduto al Teatro Erkel, alla prima e per le successive repliche. E’ andata in scena una Porgy and Bess tutta bianca o quasi. Solo due personaggi, non certo i più simpatici, erano di colore: due poliziotti nell’esercizio delle loro funzioni.
A sostegno della scelta, peraltro non inedita, Szilveszter Okovacs, il direttore dell’Opera di Budapest, ha distribuito in conferenza stampa un articolo del New York Times datato 2002, di Anthony Tommasini, autorevole critico dell’epoca, che elenca una quantità di illustri precedenti nei quali non si tenne conto del physique du role o della razza nella distribuzione dei ruoli. E’ così ci viene ricordato un Pavarotti che prestò la sua stazza a Rodolfo, l’emaciato bohémien pucciniano, l’Otello del bianco James Mc Craken e la Desdemona della nera Shirley Verret, entrambi però autenticati dal trucco, ai colori prescritti da Shakespeare.
Il giornalista conclude il pezzo definendo la coerenza razziale in materia di distribuzione dei ruoli, discriminatoria nei confronti degli artisti bianchl e pertanto penalizzante per la diffusione dell’opera e, di conseguenza, per i profitti ricavabili.
Cosa resta delle raccomandazioni degli autori, ossequiosi della veridicità dei contenuti e del tessuto simbolico dello spettacolo, secondo l’analisi del NYT, se non l’inconsistenza di poche pedanti, trascurabili, velleità autoriali?
A partire dall’esordio, il 10 ottobre 1935 all’Alvin Theatre di Broadway, che non era un’Opera House, P&B apparve da subito come un’opera scomoda. Essendo il back ground culturale l’essenza del racconto, l’autore definì la sua composizione una folk opera, determinato, irriducibile nell’assoluta necessità di un cast total black.
Non fu però dello stesso avviso, l’establishment dell’epoca.
Che a una storia di ordinary slums fosse data dignità culturale, che eroine ed eroi fossero negri, che il sogno americano apparisse ancora sbiadito dalla scia dell’infausto, recente ’29 non era ammissibile. La contaminazione dei sovrani canoni melodici europei da parte di un’eresia musicale iconoclasta ancora tutta da gestire (Jazz e vade-retro-Blues) non doveva varcare le porte del Tempio impunemente. Più di tutti potè l’assodato rifiuto dei teatri americani del tempo, di accogliere artisti di colore negli spettacoli operistici.
Dati gli antefatti recenti e remoti, il sospetto che l’odierno sbiancamento abbia ragioni inconfessabili o quantomeno insostenibili, certo non è facile da rimuovere ne tanto meno da suffragare. E una carenza, una sottrazione, quella che si manifesta nell’esecuzione in sala; prende forma una censura della sostanza e dello spessore drammatico dell’insieme scenico.
La storia è tratta dal romanzo PORGY di Heyward e dall'omonimo lavoro teatrale che egli scrisse insieme alla moglie Dorothy. Descrive la vita degli afroamericani di Catfish Row, immaginaria periferia di Charleston, Carolina del Sud, all'inizio degli anni trenta.
Porgy, è un uomo di colore che tenta di salvare Bess, la donna della quale è innamorato, dalle grinfie di Crown, il suo protettore, e di Sportin' Life, il principale spacciatore del quartiere.
L’Erkel è stracolmo per uno spettacolo che parte pigramente, languendo per i primi due atti sia sulla scena che nel golfo mistico. Le coreografie annaspano asfittiche nei percorsi e sempliciotte, scialbe, nella frontalità visiva.
L’orchestra esegue senza verve una partitura ricca di quegli stimoli che tradizionalmente elettrizzano il pubblico sorprendendolo con la sua imprevedibile architettura, ma che quì rimane ingessata nello spartito. Nessuno può di certo onestamente aspettarsi i brividi da Jazz Big Band statunitense ma l’orchestra di un Teatro d’Opera, dato lo standard tecnico dei consumati strumentisti dei quali è composta, dovrebbe pur sempre essere in grado di offrire una esecuzione professionalmente dignitosa.
È all’ attacco del terzo atto che la speranza sembra concretizzarsi e attestarsi ma poi di nuovo si attenua sull’incombere delle varianti ritmiche e lo sviluppo successivo più complesso del racconto musicale.
Qualche imbarazzo è inevitabile anche dall’ascolto del testo, rimasto evidentemente integro, di alcuni recitativi. Come quando il mendicante-bianco descrive polemicamente le elemosine raccolte come: “i soldi dei bianchi” o nel momento in cui un altro personaggio, bianco anche lui, ritorna “dall’ospedale dei bianchi”.
I cantanti, tutti, fanno del loro meglio ma risultano slegati da un amalgama che la compagnia stenta a raggiungere. Ognuno esegue prodigandosi come in solitario, a suo modo e i ruoli sembrano equivalersi, principali ai secondari.
Il pubblico non si lascia però scoraggiare e coglie gli slanci pur presenti durante l’arco narrativo, gioendo delle note più felici che a tratti travalicano la scena. Nel finale, sul palcoscenico troneggia mesta la statua di un angelo con le ali spiegate e il capo reclinato.
Reca sul petto una scritta luminosa: PROMISE; patetico, oscuro monito e insieme provocazione e invito coraggioso a decriptarne i significati.
Foto di Valter Berecz / Hungarian State Opera