Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

17/11/24 ore

I Rom e il peso del panico morale, intervista a Luca Bauccio



“I nomadi non li vogliamo”. Così dei cittadini ancora da identificare hanno motivato le loro minacce al sindaco di Lucca, Alessandro Tambellini, presentandosi a casa sua in sua assenza la sera di martedì 21 gennaio, secondo una prima ricostruzione. Il primo cittadino, che questa mattina ha sporto denuncia contro ignoti, aveva espresso la volontà di aderire al bando regionale per l’integrazione di Rom e Sinti.

 

E’ lecito supporre che se i cittadini arrivano a fare irruzione a casa del sindaco per gridare che non vogliono i “nomadi” evidentemente temono questa minoranza come un pericolo concreto alla loro vita sociale e individuale. Una paura non giustificabile, ma comprensibile, se si pensa che ogni volta che gli italiani aprono le pagine dei giornali trovano fiumi di articoli in cui il binomio Rom/criminalità viene ribadito con forza, a dispetto dei dati oggettivi: la gente vive ancora col terrore degli zingari che rubano i bambini, una leggenda sfatata dalla verità processuale, che mostra un solo caso, peraltro estremamente controverso, di condanna a una donna Rom per rapimento di minore.

 

Inevitabile, quindi, che scatti il fenomeno del panico morale, un meccanismo che abbiamo spesso approfondito con Agenzia Radicale sul tema dei Rom, ma anche delle minoranze religiose. Per capire meglio questa dinamica, abbiamo intervistato l’avvocato Luca Bauccio, esperto di diritto penale e di diritto dell’informazione, nonché fondatore di You Reporter, il quale ha rappresentato come parte civile la moglie di Abu Omar nel processo contro i suoi sequestratori e ha saputo tracciare in più occasioni, con risultati sorprendenti, la linea che separa il diritto inviolabile alla libertà di stampa dalla prepotenza della gogna mediatica.


 

 

- Un tema delicato oggi è il rapporto tra libertà di stampa e diffamazione. Nel corso della sua esperienza, come descriverebbe il ruolo dei media nelle vicende legate alla diffamazione?

 

E’ un ruolo cruciale. Ogni giorno riscontro che l’osservazione dei fenomeni della diffamazione rivela come i media in generale, e in particolare i singoli giornalisti che decidono di cavalcare i propri pregiudizi, i propri calcoli scandalistici, tendano a spadroneggiare e a farsi creatori di un fantoccio, fino a creare dei mostri.

 

- Quand’è che dalla semplice diffamazione del singolo si passa alla violazione dei diritti umani?

 

La diffamazione di una singola persona è già la violazione di un diritto umano, di un diritto fondamentale alla dignità, al rispetto della propria immagine pubblica, ma anche del proprio onore, parola un po’ retorica, forse poco moderna, però che dà la misura di che cosa sia l’insieme di ciò che gli altri ritengono di poter affermare di noi, ma anche l’immagine che noi abbiamo di noi stessi. Il diritto umano può espandersi quando la diffamazione ricade sulla persona per effetto dell’appartenenza ad una categoria: può essere un gruppo religioso, può essere una minoranza etnica, e in quel caso sul piano giudiziario si hanno più difficoltà a tutelare la persona in quanto tale. Se l’offesa è rivolta a un’intera categoria, a un’intera minoranza – pensiamo ai Rom, agli immigrati, ai musulmani – l’individuo in giudizio non può lamentare di essere solo diffamato, bisogna considerare che ci si trova davanti a un pensiero fondato sull’odio razziale o sull’odio religioso.

 

- A proposito di odio razziale e religioso, una vicenda emblematica che lei ha seguito è quella del caso Abu Omar, ovvero il sequestro di persona e il trasferimento in Egitto dell'Imam di Milano Hassan Mustafa Osama Nasr, uno dei più noti e documentati casi di azione illegale eseguiti dai servizi segreti statunitensi nella “guerra al terrorismo”. Ma al di là del ruolo dei servizi segreti, furono importanti anche la stampa e il collegamento forzato tra islam e terrorismo presso l’opinione pubblica.

 

Il caso Abu Omar è un esempio lampante di come la stampa può diventare un’alleata perfetta di poteri occulti. Il ruolo di alcuni giornalisti era fondamentale, perché attraverso i loro articoli si proponevano addirittura di inquinare le indagini dei pubblici ministeri conducendoli su altre trame. Certo fa riflettere che dei servizi segreti facessero così affidamento sulla stampa: non si tratta di pressappochismo, significa anzi che riconoscono proprio lo straordinario potere che la stampa e la comunicazione hanno oggi. Se quello che è successo ad Abu Omar fosse accaduto a un qualunque cittadino italiano, a una persona che va nelle chiese come noi, battezzata come noi, che vive come noi e non ha la faccia inquietante, la barba, insomma lo stigma del musulmano, come sarebbe stata la reazione dell'opinione pubblica? Non abbiamo assistito a grandi prese di posizione di intellettuali, non abbiamo sentito molti politici schierarsi per la verità e la giustizia nel processo Abu Omar. Sebbene, questo bisogna dirlo, abbiamo avuto un esempio straordinario dalla magistratura, che è l’unica che ha tenuto fermo il principio che la legge è uguale per tutti, che non c’è verità, non c’è giustizia se il diritto non è uguale per tutti. Oggi la stampa se ne disinteressa e avrebbe avuto un’altra reazione se questa vicenda fosse capitata a un'altra persona.

 

- E’ un tema che ha sviluppato anche all’interno del docufilm 'Al Qaeda! Al Qaeda!', che ha realizzato insieme a Giuseppe Scutellà e che approfondisce il tema della cosiddetta “gogna mediatica”. Come si sviluppa questa dinamica nel caso delle minoranze etniche e religiose?

 

Questo per me è uno schema che si ripete quasi pedissequamente sempre. La casistica affrontata ogni giorno nelle aule di giustizia mi permette di dire che lo schema è sempre quello: quando c’è qualcuno che è portatore di una diversità, questa diversità può diventare, quando non è occasione di contemplazione esotica, l’occasione per costruire le carriere di pubblici accusatori a mezzo stampa. La diversità degli altri serve ad accreditarci nel ruolo di accusatori: e il fenomeno imperante è che è l'accusa che fonda la sentenza, che giustifica se stessa. Se si è accusati di essere potenziali terroristi o potenziali svaligiatori di case, mi riferisco per esempio alla minoranza musulmana o alla minoranza Rom, l’accusa è così alta e così benemerita che l'accusatore non deve dimostrare come giustifica quelle accuse verso persone colpevoli solo di essere appartenenti a quella minoranza, di essere contaminati dall’appartenenza a quell’identità. In questo caso l’accusatore non si fa carico di dimostrare l'accusa, è l'accusato che deve dimostrare la propria innocenza. C'è un caso emblematico, che vorrei diventasse oggetto di studio: una sentenza che ha deciso di un caso di diffamazione ai danni di un intellettuale islamico molto famoso e molto citato per il suo pensiero riformista.

 

Questo intellettuale, in maniera inusitata, veniva accusato in un articolo di aver giustificato l'omicidio di donne e bambini israeliani. Quando si è fatta la causa, si è chiesto ovviamente all'accusatore di citare la fonte: solo che la sua fonte era un sito saudita. Ovviamente chiunque avrebbe riso, invece il giudice ha stabilito che l'accusato avrebbe dovuto dimostrare di non aver mai pronunciato quella frase. Può sembrare un'affermazione di una persona poco ferrata dal punto di vista logico, eppure questa tendenza a trasformare l'accusato in qualcuno che si deve giustificare è imperante non solo sulla stampa ma anche nelle aule di giustizia, talvolta.

 

- Questo è un volto della magistratura e della stampa, ma fortunatamente esiste anche una stampa che rende giustizia, che lei ha contributo a creare con la fondazione di You Reporter. Secondo lei oggi, nell’era del 2.0, il cittadino, al di là delle sue appartenenze, può sfruttare i nuovi media per difendersi quando i media generalisti arrivano a calpestare la dignità della persona?

 

Penso che oggi siano l'unica via di uscita. Qualche giorno fa una rete televisiva, a proposito delle elezioni fatte in Egitto, delle votazioni di una costituzione scritta da generali golpisti, inquadrava delle donne in primo piano e la voce fuori campo diceva: “Una folla sterminata ai seggi”. Il risultato è che chi ascolta e non è un esperto di politica internazionale deduce che ci fosse una grande partecipazione e quelle immagini dovevano sostenere quell'affermazione. Secondo i dati diffusi dal governo golpista egiziano, quindi sicuramente da prendere con le pinze, l'affluenza sarebbe stata del 38 percento. La folla sterminata ai seggi, sintetizzata da un'inquadratura in primo piano di una trentina di donne festanti e sorridenti davanti alla telecamera che sintetizzava la folla e la festa per quel momento, era perciò un imbroglio.

 

Questa tendenza purtroppo è inveterata. I nuovi media sono in grado di scardinare questa pratica perché, come nel caso di You Reporter, rinunciando a imporre una linea editoriale e a giustificare il proprio punto di vista ribaltano questa cristallizzazione di un malcostume informativo che fa un danno enorme alla buona fede pubblica. Su You Reporter arrivano video da tutto il mondo. Nessuno seleziona i video di You Reporter, nessun video acquista una preminenza o una visibilità maggiore degli altri solo perche più confacenti al proprietario di You Reporter. I video in primo piano sono quelli più visti. Mi sembra una forma democratica di informazione che non è al servizio del giornalista, ma al servizio di chi fruisce del servizio, cioè dell'utente, del visitatore che vuole farsi un'idea delle cose. Spesso le immagini mandate da persone qualunque sono molto più oneste, dialettiche, stimolanti di servizi che si fregiano dell'imprimatur di reportage o di grande opera giornalistica.

 

- Nell’affrontare il gravissimo caso di malagiustizia di Arkeon e di Vito Carlo Moccia lei ha spesso descritto il ruolo dei movimenti anti-sette, ma anche della Squadra Anti-sette e dei media, nel rischio liberticida della reintroduzione del reato di plagio e più in generale nelle questioni legate alla libertà religiosa, un tema che abbiamo spesso approfondito con Agenzia Radicale. Potrebbe raccontarci il suo punto di vista?

 

Io dico sempre una frase apparentemente paradossale: viviamo in un'epoca di fondamentalismo religioso. Questa avversione verso l'autorganizzazione religiosa, persino l’avversione verso la dedizione alla fede, è una manifestazione estrema di fondamentalismo religioso, cioè di quel punto di vista che assume la propria religione come chiave di lettura, ma anche di ordine della vita sociale e individuale. Un punto di vista liberale non può ovviamente assecondare una società dominata dai cleri, ma non può nemmeno accettare che si possa impedire alle persone di auto-organizzarsi e di far vivere il diritto, il quale è vivo se le persone sono vive in regole uguali per tutti.

 

La costruzione di questa mitologia sulle sette deriva dal fatto che finché sono persone che si uniscono per un rito non definiscono chi li osserva e li giudica, fino a quando queste organizzazioni non le vestiamo con la parola magica. Ce n’è una in ogni settore: i Rom diventano zingari, quelli terroristi, questi altri membri della setta o seguaci di Satana … ed ecco il fondamentalismo religioso. La parola magica trasforma la realtà e ne costituisce una che non esiste, che fa sfregio all’identità e al bisogno di sognare delle persone, che diventano dei diavoli. E c'è accanto a questo processo un pullulare di accusatori che, come dicevamo, non hanno bisogno di dimostrare l'accusa, perché è la parola che anticipa e giustifica la condanna. Questi pubblici accusatori fuoriescono da un indistinto presente e diventano opinionisti, angeli custodi dell'identità nazionale, dell’integrità dei minori e perfino della verginità delle donne. Accanto a questo processo, infatti, c’è sempre una tendenza un po' pornografica per cui, anche a margine della vicenda Arkeon, molte accuse di diffamazione che noi abbiamo promosso sono a giornalisti che hanno inventato interviste a ignote vittime, altrettanto inventate, di violenze sessuali di gruppo e bestiali. Un pullulare di visioni fantastiche che sono pura letteratura giudiziaria, un romanzo che però viene costruito e intessuto con gli ingredienti dello scoop giornalistico. Pensate che spessissimo l'accusa giornalistica scavalcava persino quella giudiziaria. Non dico tanto che tali accuse non abbiano trovato conferma nella sentenza, non erano nemmeno ipotizzate nei capi d’accusa! Ma non c'è setta senza Belzebù e donne violentate, senza genitori abbrutiti, orge collettive ...

 

Questi romanzi neri non sono materia per sorridere soltanto della brutalità di certi meccanismi, perché si fanno carne, sangue, vita di ogni giorno, e questo è un aspetto sul quale in Italia ancora oggi si riflette poco: quali sono gli effetti della diffamazione, come la diffamazione cambia la vita delle persone. Il giorno e la notte, soprattutto la notte delle persone, diventa un incubo: ci si sente addosso e si convive col giudizio artefatto creato da un articolo di una persona che diventa la presidentessa di un’altisonante associazione dal nome salvifico, in una sovrapposizione di definizioni che sostituiscono, alla fine, la realtà. La testardaggine nel portare avanti le cause per diffamazione sta anche in questo. Non è l’obiettivo economico: quasi mai riscontro nei miei clienti questa ossessione del denaro, ma l’ossessione invece di trovare un momento di riconciliazione con la stessa società che ha violato la propria causa, ha deturpato e sporcato la propria biografia. In quella società, pubblicamente, il diffamato cerca il riscatto, la riconciliazione attraverso il ripristino della verità sulla propria vita.

 

In questo c'è anche un obiettivo grande: difendere i diritti umani fondamentali, perché il diritto alla vita è la vita del diritto, se questa non c'è, non c'è senso della giustizia. Questo diritto non è un diritto domestico, non è il diritto dei rapporti sociali o del villaggio, ma è un diritto universale. Per questo non ci deve lasciare indifferenti il diritto di Vito Moccia a costituire la propria esperienza di fede, di tecnica meditativa. I diritti dei cristiani in Cina o in Vietnam non sono diversi dai diritti di una minoranza Rom o musulmana in Italia, perché il diritto è unico, e dobbiamo difenderlo e pensarlo in tutte le sue dimensioni. Altrimenti non ci resta che il fondamentalismo religioso.

 

Camillo Maffia

 

 


Aggiungi commento