Il 15 aprile 2016, s’è svolta presso la sede dello Jasenovac Memorial Museum in Croazia, una commemorazione delle vittime del terribile campo di concentramento gestito dal regime degli ustaša durante la Seconda Guerra Mondiale, organizzata dalla Coordination of Jewish Communities in maniera autonoma e volutamente separata dalle celebrazioni ufficiali che si terranno il 22 aprile prossimo, come forma di protesta contro il rigurgito di simpatie per il movimento ustaša in atto nel paese balcanico e l’atteggiamento di crescente revisionismo o relativizzazione dei suoi crimini.
Ai piedi del “Fiore di Jasenovac”, il monumento realizzato dall’architetto Bogdan Bogdanović sui terreni dove dal 1941 al 1945 furono sterminate o morirono di stenti circa 700 mila persone (le stime vanno da un minimo di 100.000 a un massimo di 1.000.000, ma la maggior parte degli storici sembra concordare sulla cifra che riportiamo), in maggioranza di origine serba, rom o ebraica, sono state deposte delle pietre simboliche in ricordo dei martiri della violenza razzista mentre Lucijano Moše Prelević, Rabbino Capo di Croazia, ha recitato la Preghiera per i Defunti davanti a rappresentanti delle maggiori organizzazioni ebraiche, serbe ed antifasciste, e a membri delle opposizioni di centrosinistra e del parlamento tra cui l’ex-presidente croato Ivo Josipović.
I partecipanti hanno motivato la loro scelta di boicottare così la commemorazione organizzata dal governo in segno di vibrante disapprovazione per quello che percepiscono come un atteggiamento d’incapacità, apatia o puntuale mancanza di volontà di reagire contro l’incalzante e pericoloso revival antisemita e fascista nel paese, che ne metterebbe a rischio la tenuta democratica.
Alcuni fatti riportati di recente sembrerebbero confermare queste tesi inquietanti, in un momento storico di crisi in cui s’assiste in tutt’Europa ad una crescita di consenso per le destre estremiste: nei giorni scorsi infatti veterani della Nona Divisione dell’esercito croato della guerra civile degli anni ’90, riunitisi a Spalato per celebrare i 25 anni dalla fondazione della loro unità (che coincideva anche con il settantacinquesimo anniversario della fondazione dello Stato Indipendente di Croazia governato dal movimento filo-fascista degli ustaša), hanno manifestato per la legalizzazione del saluto “za dom spremni”, in croato l’equivalente del “sieg heil” nazista, scandendolo orgogliosamente per le strade.
Ancora più inquietante è l’attenzione che sta ricevendo il documentario di Jakov Sedlar intitolato Jasenovac-Istina (Jasenovac-La Verità), paradossalmente presentato per la prima volta lo scorso 28 febbraio proprio in Israele, forse per provocazione, forse nel tentativo di ottenere qualche sorta di legittimazione dei suoi contenuti altamente controversi.
Ci sembra a questo punto obbligata l’apertura d’una parentesi storica necessaria a inquadrare la polemica più chiaramente: il campo di concentramento di Jasenovac, anche noto come “La Auschwitz dei Balcani”, rappresenta una delle pagine più cupe della storia europea, costantemente rimossa dalla memoria collettiva. Eppure la struttura, che sorgeva in territorio croato a soli 100 km circa a sud-est della capitale Zagabria, fu uno dei più atroci campi di sterminio, il terzo per dimensioni in Europa dopo Auschwitz e Buchenwald, creato dal regime di Ante Pavelic riconosciuto e sostenuto dall'Italia fascista, dalla Germania nazista e, silenziosamente e colpevolmente, appoggiato del Vaticano nella persona dell’arcivescovo Alojzije Stepinac, amico e riferimento ideologico del poglavnik (duce) croato, le cui milizie benediceva ed ispirava (si veda in proposito l’ottimo testo di Marco Aurelio Rivelli, “L’Arcivescovo del Genocidio”, Kaos, 1999).
Sono ormai state ampiamente documentate da diversi autori, jugoslavi e non, le efferatezze e le torture escogitate dalla macabra fantasia delle guardie ustaša per accrescere le sofferenze e l’agonia delle loro vittime: i più fortunati morivano di fame o con i liquidi dello stomaco e l’intestino congelati dal freddo, gli altri – senza alcuna differenza per sesso o età – venivano sgozzati con un coltello speciale, chiamato srbosjek ossia “scannaserbi”, montato su un guanto di pelle che restava costantemente fisso al polso, oppure venivano affogati, bruciati, decapitati, strangolati con il filo spinato, o uccisi con una speciale mazza di legno che gli fracassava il cranio con un colpo alla tempia. Nell’orrido mattatoio si distinse su tutti, per lo “zelo”, Miroslav Filipovic, un religioso soprannominato “frate Satana”, famoso per la sua abilità nello scannare donne e bambini. Tutto ciò in nome del progetto delirante d’una nuova Croazia ariana e cattolica fondata sulla cancellazione fisica degli indesiderati di sempre: ebrei, zingari, serbi ortodossi.
In questo contesto doloroso, le cui ferite sono tuttora aperte e sanguinanti (chi scrive, visitando alcuni campi nomadi in Italia ha potuto sentire con le proprie orecchie, dalla viva voce di sopravvissuti in lacrime o dai loro diretti discendenti, raccapriccianti storie di stupri ed esecuzioni sommarie, di ceste piene di bulbi oculari strappati, di mucchi di cadaveri gettati nel fiume Sava, sulle cui rive era costruito il campo, rinominato per questo “fiume di sangue”), s’inserisce l’opera destabilizzante di Sedlar in cui si sostiene la tesi, priva di riscontri credibili, secondo cui Jasenovac sarebbe stato solo un campo di prigionia e lavoro, costruito dunque senza alcun intento genocida, e che il numero delle vittime degli ustaša sarebbe inferiore a quello delle vittime sterminate dai partigiani jugoslavi dopo la guerra nello stesso posto. In sostanza, sarebbero stati i “comunisti” a realizzare un campo di sterminio nell’area di Jasenovac e non gli ustaša, in una campagna di disinformazione che ricalca all’inverso la tragica vicenda del massacro di Katyn da parte dei sovietici (anch’esso ricorrente in questi giorni) e della sua strumentalizzazione da parte della propaganda di quel regime.
L’operazione quindi si porrebbe come tentativo manifesto di legittimare le politiche concentrazionarie dello Stato Indipendente di Croazia, di ripulirne l’immagine con un intervento spudorato di “restyling” improbabile quanto offensivo dal punto di vista storico. Sembra tuttavia che la première del documentario sia stata applaudita con entusiasmo da Zlatko Hasanbegovic, attuale ministro della cultura croato molto vicino a certe posizioni di destra.
Molto preoccupato della deriva revisionista in atto si è detto invece Efraim Zuroff, direttore del Centro Simon Wiesenthal per Israele ed Europa dell’Est, che ha dichiarato: “la storia travagliata della Croazia continua ad affliggere il suo presente e minacciare il suo futuro democratico”.
La presidente della Repubblica Croata, Kolinda Grabar Kitarovic, che presiederà le commemorazioni ufficiali, negli ultimi giorni ha provato a stemperare la polemica definendo "criminale" il regime ustaša, affermando con forza che la moderna Croazia è fondata sui valori dell'antifascismo, ma i rappresentanti delle minoranze sostengono che sia troppo poco e troppo tardi per un governo che tollera nostalgici del movimento di Pavelic in parlamento e tra i suoi membri ed ora si aspettano atti concreti e non solo parole da parte delle massime autorità nazionali. In particolare la Lega Anti-Fascista di Croazia ha fatto sapere che organizzerà un’altra celebrazione alternativa per le vittime di Jasenovac a Zagabria nella stessa data di quella ufficiale.
Tutto ciò nell’assoluto silenzio della stampa italiana, sempre pronta a riportare puntualmente l’ultima salvinata (ci piace usare qui questo neologismo da pochi giorni introdotto ufficialmente nel dizionario) ma completamente ignara della bufera politica a poche miglia di distanza, dall’altra parte dell’Adriatico. Se ci dicessimo stupiti tuttavia peccheremmo certo d’ingenuità dato che sappiamo bene come gli storici in Italia siano ancora impegnati in prolungate disquisizioni sui silenzi di Pio XII in merito alla vergogna delle persecuzioni razziali naziste e fasciste, sulla sua consapevolezza o meno della realtà dello sterminio sistematico che veniva perpetrato nei lager hitleriani (mentre riceveva in udienza privata lo stesso Ante Pavelic) e sui testi ufficiali – scolastici o meno - non una parola, una circostanza, venga assolutamente citata a proposito di Jasenovac e dei suoi orrori, di quello che alcuni studiosi di lingua inglese definiscono ormai da anni “The Vatican Holocaust”…
E il Vaticano? Come già deciso da tempo, presto Papa Francesco potrebbe recarsi nella cattolicissima Croazia per la canonizzazione ufficiale dell’arcivescovo Stepinac, già beatificato da Giovanni Paolo II, con buona pace del dialogo da poco riaffermato con il mondo ortodosso, che mal tollera l’elevazione all’altare dell’Arcivescovo del Genocidio. Misteri della Fede o della Geopolitica? Sarà la Storia a dirlo.
Gianni Carbotti
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