Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

24/12/24 ore

Responsabilità civile dei magistrati, quei principi ignorati della cultura liberale e garantista


  • Silvio Pergameno

Vecchia questione che si trascina dai tempi del referendum del 1987 (promosso dal partito radicale), quando una fortissima maggioranza del paese si espresse per l’affermazione di un principio di responsabilità dei giudici per danno ingiusto arrecato al cittadino.

 

Seguì la famosa legge Vassalli (n. 117 del 1988), la quale in linea generale si è sostanzialmente attenuta al principio seguito in materia nella maggior parte degli stati democratici, nel senso che non viene ammessa un’azione diretta nei confronti del magistrato, ma solo nei confronti dello stato, il quale poi può esercitare una rivalsa nei confronti del giudice. Il magistrato deve avere operato in condizioni di dolo o di colpa grave, restando comunque escluse le questioni riguardanti l’interpretazione delle leggi o l’apprezzamento dei fatti o la valutazione delle prove.

 

Può forse destare sorpresa che negli stati i cui ordinamenti sono maggiormente ispirati ai principi del liberalismo (Regno Unito, Stati Uniti, Canadà, Israele) non sia ammessa alcuna possibilità di agire nei confronti dei magistrati in materia, ma si tratta di paesi nei quali la correttezza del comportamento dei giudici risulta altrimenti assicurata da fattori legati alla tradizione e al costume. La Spagna invece è l’unico paese che ammette anche l’azione diretta contro il giudice, ma con particolari cautele.

 

La legge Vassalli in pratica non ha funzionato, perché in ventisei anni di vigenza le condanne contro magistrati si contano sulle dita di una mano; ci sono stati interventi della Corte di giustizia europea di Lussemburgo e pronunzie della Corte costituzionale, la quale ha teso ha ribadire in materia i limiti indispensabili in ragione della posizione super parte e di terzietà del magistrato, che però non debbono essere tali da legittimare un’esclusione totale della responsabilità, che violerebbe l’art. 28 della costituzione e sarebbe anche irragionevole.

 

Come è noto, la questione è tornata incandescente in questi giorni in quanto la Camera ha approvato un emendamento a una legge europea in materia di responsabilità civile dei giudici, che introduce la responsabilità diretta dei magistrati e rivede le esclusioni previste dalla legge Vassalli dai motivi di richiesta di risarcimento delle questioni concernenti l’interpretazione delle leggi e la valutazione del fatto e delle prove. (La legislazione in materia di responsabilità civile del magistrato si riferisce sia alla legislazione italiana che a quella comunitaria e in materia il nostro paese ha subito molte condanne da parte della Coste di giustizia di Lussemburgo).

 

L’emendamento era stato presentato dall’on. Gianluca Pini della Lega Nord, che già nel 2012 in circostanza analoga ne aveva presentato uno analogo, che era stato anche allora approvato, salvo che poi non ha superato l’esame al Senato. L’11 giugno u.s. l’approvazione del discusso emendamento è avvenuta a scrutinio segreto, con il voto favorevole di 37 deputati del PD, che hanno ritenuto di non adeguarsi alla posizione del governo e della segreteria del partito. E si è scatenata una tempesta, che rivela lo stato di grave malessere in cui versa la giustizia e le contrapposizioni interne al partito democratico tra garantisti e giustizialisti. E ne rappresenta la prova proprio il paradosso che emerge tra la sostanziale conformità della legislazione italiana in materia al diritto internazionale, quanto meno nell’impostazione generale, e il putiferio che si scatena non appena si fa strada qualche proposta di natura garantista, tenendo presente il fatto che la richiesta di risarcimento per “malagiustizia” è il terminale dell’andamento abnorme di un processo.

 

Come si spiega questo paradosso, questa discrepanza tra le norme scritte e le norme concretamente applicate? E’ l’indice di una giustizia che non funziona e non funziona per la distanza che la separa dagli standard della giustizia dei principali paesi europei.

 

La giustizia penale in Italia è oggetto di critiche pesanti e molteplici: la mancanza di qualunque forma di habeas corpus (quando nel 1994 il ministro Biondi propose limitate misure in tal senso si scatenò subito una accanita campagna contro il decreto “salvaladri”); la gestione dei pentiti nei processi contro la criminalità organizzata; la discrezionalità che emerge nella pratica dell’obbligatorietà dell’azione penale (in molti paesi vige il principio dell’opportunità); l’uso delle intercettazioni telefoniche (si ricordi la vicenda del coinvolgimento del presidente Napolitano); il fatto che il segreto istruttorio risulti troppo spesso violato e che di conseguenza vengano in essere processi mediatici sulla stampa e sui media (con conseguenze che possono essere più gravi di quelle una condanna e diventano irreparabili nel caso di un’assoluzione o di un’archiviazione); l’uso accentuato della carcerazione preventiva (che fa scontare una pena prima e anche in assenza di una condanna - in caso di assoluzione dell’imputato - e che determina il gravissimo fenomeno del sovraffollamento delle carceri) – le disposizioni che la regolano possono essere interpretate con molta larghezza -; il passaggio di magistrati, divenuti famosi per i processi trattati, alla carriera politica; la forte percentuale di assoluzioni (21/23% secondo diverse indagini); il frequente contrasto di sentenze nei vari gradi di giurisdizione; l’essere di fatto venuto del tutto meno il principio della presunzione di innocenza; l’esistenza di processi, come quello della trattativa stato-mafia, che hanno sollevato critiche puntuali da parte di giuristi di chiara fama e quella di reati di assai incerta configurazione, come il concorso esterno in associazione mafiosa; il numero assurdamente elevato delle disposizioni vigenti e lo scoordinamento e i contrasti tra le stesse, con la conseguenza gravissima dell’incertezza del diritto e quindi della precarietà della situazione nel soggetto che vuol tutelarsi in sede giudiziaria…

 

La lentezza esasperata del nostro sistema giudiziario (anche questa oggetto di condanne da parte della Corte di giustizia europea) con gravissimi riflessi negativi per la tutela dei cittadini, per l’andamento dell’economia, per il pratico funzionamento della giustizia, non è quindi un problema di aggiustamenti di disposizioni particolari, ma è un problema politico di prima grandezza – forse il più impegnativo che dobbiamo affrontare – e le divisioni politiche che su di esso si formano, denotano profonde carenze negli stessi punti di partenza: i principi della cultura liberale e garantista hanno scarso diritto di cittadinanza nel nostro paese e di qui le ripetute condanne che subiamo da parte della Corte di giustizia europea, la cui portata stenta poi (e non meraviglia) a fare breccia nell’ambito del nostro ambiente e della nostra stessa cultura politica e istituzionale.


Aggiungi commento