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24/12/24 ore

Gli auto-riciclati del Pd


  • Ermes Antonucci

“Renzi è passato dalla rottamazione al riciclo”. A dirlo, nel settembre 2013, era nientemeno che Matteo Orfini, allora uno dei più fervidi anti-renziani, oggi però anch’egli riciclato e nominato, su proposta proprio di Renzi, presidente del Partito Democratico. Con una battuta – a distanza di mesi decisamente beffarda – il leader cosiddetti Giovani Turchi (“Rifare l’Italia”), vicinissimi a D’Alema e Bersani, commentava gli endorsement dei molti ex bersaniani nei confronti del sindaco di Firenze, all’epoca ancora in lotta congressuale con Cuperlo. “Un patto di oligarchi” lo definiva Orfini, che poi affermava fieramente di non essere l’unico a non voler salire sul carro del vincitore: “C’è un gruppo di persone che sta lavorando ad una seria proposta alternativa”.

 

La proposta alternativa dei Giovani Turchi, in realtà, è ancora oggi immersa nell’oscurità. I pochi bagliori di luce, invece, hanno mostrato le manovre di una corrente che lentamente ritornava sui suoi passi e, in linea con quel clima di conciliazione nazionale di stampo renziano, finiva addirittura per sostenere la politica del nuovo premier.

 

Un patto sancito dalla nomina del “turco” Andrea Orlando come ministro della Giustizia e, ora, dall’elevazione a presidente democratico di Orfini. Nonostante, insomma, l’orgoglio con cui Orfini richiamava l’attenzione contro l’idea del Riciclatore fiorentino che si possa “governare il Pd con un patto di potere, prescindendo dalla politica”, anche gli irriducibili Giovani Turchi hanno finito con l’abbandonarsi alle vecchie logiche di potere e di opportunità. Una sorta di auto-riciclaggio, utilizzando la stessa terminologia di Orfini, ad opera di rifiuti “indifferenziati”, indifferenti cioè al colore della casacca che occorre indossare (l’importante è che ci sia un tornaconto personale).

 

I Giovani Turchi, comunque, sono in buona compagnia (del resto il renzismo ha contagiato, con il suo carattere dogmatico, interi settori della vita del Paese). Tra tutti spiccano due nomi. Innanzitutto Dario Franceschini, che, prima di accettare di buon grado la nomina a ministro della Cultura, su Twitter tifava per Bersani, che “ragionava”, contro un Renzi che invece, a detta di Franceschini, “recitava”. Memorabile è stata anche la marcia indietro della seconda celebre anti-renziana pentita, Federica Mogherini, che, dopo aver fatto notare quanto la rottamazione di Renzi lasciasse a desiderare e quanto l’allora candidato segretario avesse “bisogno di studiare un bel po’ di politica estera” dal momento che “non arrivava alla sufficienza”, è diventata (seppur in pochi se ne siano accorti) titolare della Farnesina, forse, chissà, proprio per offrire lezioni private al povero premier.

 

Ad accompagnare i due, ci pensa Stefano Fassina, ricordato, oltre che per le continue bordate nei confronti del Rottamatore, per aver abbandonato indispettito il governo Letta quando Renzi lo chiamò “Fassina chi?”, ma che dinnanzi al 40,2% del Pd ha avuto la rivelazione: “Matteo è l’uomo giusto al posto giusto”. 

 

 


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