Le polemiche attizzate in Germania sulle dichiarazioni di Mario Monti nell’intervista allo “Spiegel” non meriterebbero perdite di tempo se non fosse per l’occasione che forniscono di toccare un argomento di ben altro spessore.
Allo “Spiegel” Monti ha tenuto a sottolineare come nella gestione delle misure anticrisi sia decisivo il ruolo dei governi piuttosto che quello dei parlamenti, una considerazione dai contenuti quasi scontati, tenuto conto che si tratta di adottare giorno dopo giorno provvedimenti di carattere amministrativo e soltanto per alcune fasi di carattere legislativo e di ordine generale e quindi di competenza dei parlamenti; cosa che del resto è avvenuta in Italia in questi ultimi mesi, dopo i silenzi pluridecennali dei quale atiamo paghando le conseguenze.
Sul punto, comunque, sono insorti esponenti della CSU bavarese, il Ministro del Tesoro liberale, il Presidente del Bundestag e anche personaggi della socialdemocrazia, lamentando lesioni dell’ortodossia democratica e ribadendo che mai i tedeschi rinuncerebbero ai principi della democrazia parlamentare.
Potrebbe essere accattivante a questo punto lasciarsi andare a dotte disquisizioni in tema di sociolologia e di costituzionalismo o cedere a derive di stampo politologico, ma sarebbe un errore. Il terreno del contenzioso è molto più calibrato sul quotidiano, ma proprio per questo è assai più significativo: perché in realtà si voleva trovare il modo di colpire su un presunto punto debole il Presidente del Consiglio italiano reo di avvalersi del prestigio di cui gode in Europa per cercare quanto meno di ammorbidire le posizioni di Angela Merkel in materia di austerity (pare tra l’altro che alla fine dello corso giugno Premier italiano, in un faccia a faccia nel corso di uno dei tanti vertici europei, abbia cercato di mettere all’angolo la Kanzlerin per costringerla a cedere almeno di qualche passo dal suo percorso .…moralizzatore).
E sullo stesso piano ci sono anche state repliche di qualche angolo della nostra stampa (a destra), ben lieta di avere qualche pezzo di arene da mettere sul fuoco.
E così a oltre sessant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale e dopo mezzo secolo di europeismo abbiamo la sconcertante sensazione di essere tornati indietro di diversi decenni, ai tempi dei sacri furori nazionali e di aver sprecato buona parte della nostra vita per niente, senza accorgerci che stiamo bruciando la più ricca e variegata tradizione politica (e culturale) di tutto il mondo e avvilendo le nazioni europee in ridicole beghe campanilistiche.
Penso comunque che qualche ripensamento e qualche rivalutazione a questo punto sia doverosa. Ho in mente un intervento di Sergio Romano (sul Corriere) nel quale l’illustre columnist sottolinea la grandezza storica di De Gasperi, Adenauere Schuman, i tre leader cattolici del dopoguerra, che impostarono la ricostruzione del continente sul principio della piena accettazione della Germania nel nuovo contesto europeo, evitando gli errori di Versailles.
Un giudizio da condividere, ma non senza dimenticare che la loro opera è rimasta a metà, perché la ricostruzione europea è stata la riedificazione dei vecchi stati nazionali, con qualche tentativo marginale di mettere in essere alcune agenzie comuni. Gli esiti sono, purtroppo, quelli che abbiamo sotto gli occhi.
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