di Gianfranco Spadaccia
L'attuazione dell'accordo raggiunto a Bruxelles sulla Grecia comincia ad avere, con la riapertura delle banche e il prestito ponte, i suoi primi effetti. E comincia anche ad essere chiaro anche ai più superficiali e ai più prevenuti come non sia affatto vero che l'accordo sia peggiore di quello che era stato proposto prima dell'indizione del referendum. Lo è sicuramente per la ristrettezza dei tempi e per le garanzie e i vincoli posti al Governo greco.
Ma, a differenza di quello, il nuovo accordo disegna una strategia di medio periodo, assicurando finanziamenti per oltre 87 miliardi, 35 dei quali destinati a finanziare gli investimenti per la ripresa dello sviluppo economico del paese. Accanto a questo, Tsipras può inoltre vantare di essere finalmente riuscito a rompere il tabù che fino a qualche giorno fa' aveva impedito di mettere in discussione il possibile alleggerimento del debito o la sua rimodulazione e ristrutturazione.
Una esperta e autorevole amica mi ha dato ragione pur esprimendo dubbi sul realismo del piano. E certamente la sua funzionalità dipende ora in gran parte dalla classe dirigente ellenica e personalmente da Tsipras che dopo averci fatto sapere che “non crede” nell'accordo che ha firmato, dovrà prima o poi farci sapere anche in cosa crede per fare uscire il suo paese dalla crisi.
Intanto prosegue il dibattito sulle “profezie destinate ad autoavverarsi” di alcuni premi Nobel nordamericani che si sono schierati prima, durante e dopo il referendum accanto a Varoufakis. Interessante è oggi il confronto fra l'articolo di uno di essi, Paul Krugman, pubblicato da Repubblica e l'articolo di Federico Fubini sul Corriere che li accusa di aver usato la Grecia per vedere confermate le proprie teorie sulla debolezza dell'euro e sulla sua inevitabile crisi.
Io non contesto beninteso le critiche di Krugman e di Stigliz alla moneta unica, nata fuori di un contesto di politiche fiscali e monetarie realmente unificate e pienamente sovranazionali che la rendono indubbiamente fragile e fortemente esposta ai contraccolpi di ogni crisi economica e soprattutto finanziaria. Mi guardo bene anche dal contestare la loro legittima critica alle politiche di austerità che hanno caratterizzato l'Unione europea e di cui la Germania è stata in questi anni il rigido e arcigno guardiano, critica pure in gran parte condivisibile.
Mi sento invece di rivolgere ai due Premi Nobel due obiezioni. Inanzitutto, a dispetto dei loro vaticinii, questo strano calabrone che è l'euro si è dimostrato assai meno fragile e debole del previsto. Sarà stato per il ruolo giocato dal Presidente della BCE Draghi e per i suoi coraggiosi interventi che hanno in qualche modo supplito ai poteri di cui è dotata ad esempio la Federal Reserve.
Sarà per il fatto che nei momenti delle scelte decisive il Governo della Signora Merkel ha sempe fatto pendere la bilancia dalla parte delle soluzioni unitarie anziché da quella della rottura e della disunione. Sta di fatto che il calabrone euro continua a volare e mantiene, nei rapporti per esempio con il dollaro, quotazioni più che rispettabili. Lo stesso Tsipras ha dovuto ammettere che al contrario di quanto sperava Varoufakis, l'indizione del referendum non ha infiammato i mercati con il pericolo di contagio nei confronti degli altri paesi debitori, e la moneta unica ha retto meglio di quanto entrambi avessero previsto e sperato.
La seconda obiezione è politica. Con l'attuale moneta unica e con l'attuale assetto dell'Unione Europea noi cittadini d'Europa ci troviamo in mezzo al guado. Molti ci spingono a tornare indietro verso una balcanizzazione dell'Europa e un ritorno agli Stati nazionali. Sarebbe la fine del sogno europeo. In pochi anni gli stati europei, in un mondo globalizzato, perderebbero ogni capacità di competizione, nel confronto con i grandi stati federali di dimensione continentale o subcontinentale.
Questa Unità europea è assai lontana dall'obiettivo federalista europeo degli autori del manifesto di Ventotene e anche dalle ambizioni che ispirarono i tentativi e gli accordi dei padri fondatori ma è l'unica che abbiamo per poter aspirare ad una unità più forte e più democratica, a una moneta meno fragile sorretta da una politica di tesoreria e da una politica fiscale e monetaria realmente unitaria e, con essa, a una politica estera e di difesa comune.
È una speranza difficile, se si guarda alle difficoltà odierne e alla spinta dei populismi, dei sovranismi, dei nazionalismi di destra e di sinistra che sembrano invincibili; forse impossibile se si guarda alla pochezza delle classi dirigenti europee.
Ma è solo da qui, da questa Europa e da questa moneta, che possiamo resistere per non essere risospinti indietro e ripartire per andare avanti verso quella unità più forte e quella moneta più stabile che è nelle obiettivi almeno teorici di Krugman, il quale non si accorge che con le sue profezie e le sue previsioni non è solo un profeta di sventura, ma un attivo avversario di ogni residua prospettiva e speranza di unità europea.
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