Nell'Italia sempre più aggrovigliata nei nodi di una società delle conseguenze che ne ostacola il pieno dispiegarsi delle potenzialità, si determinano situazioni per le quali a volte giudizi all'apparenza sensati e motivati si rivelano invece superficiali.
È il caso di alcuni commenti alla notizia che diversi docenti neo-assunti, dopo l'emanazione della legge sulla cosiddetta "buona scuola", hanno rifiutato l'assegnazione perché non intendono trasferirsi lontano dalle loro province così come previsto dal contratto che viene loro proposto. Subito non sono mancate le critiche a un comportamento ritenuto pretenzioso, assolutamente insostenibile stante le difficoltà in cui versa il mercato del lavoro.
Eppure le alte percentuali delle rinunce avrebbe dovuto invitare a una più attenta considerazione dei motivi che le determinano. Non ci troviamo infatti di fronte a persone giovani, al loro primo impiego. Né si tratta di individui paragonabili a militari o volontari, liberi da vincoli o per i quali le necessità del vivere quotidiano sono garantite dalle strutture organizzative di appartenenza.
I docenti che hanno avuto accesso al ruolo sono spesso oltre i trent'anni, che hanno già costituito delle famiglie, ai quali un trasferimento in altra regione comporta un impegno di spesa incompatibile con gli stipendi che percepiranno. La struttura del nostro Paese non è certo confrontabile con quella di altri, dove trovare case in affitto non è una chimera. In una città del settentrione il fitto di una camera brucia oltre la metà dello stipendio di un insegnante. Figuriamoci un appartamento dove risiedere coi familiari.
Per molti, allora, il "posto fisso" a centinaia di chilometri di distanza appare allora come uno strumento indubbiamente utile, ma che non si è nella condizione di poter usare.
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