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17/11/24 ore

Crisi dei partiti e assenza di dibattito


  • Silvio Pergameno

Un esame approfondito della crisi dei partiti nei primi anni novanta del Novecento è il grande assente nel dibattito politico, ma non nel senso che non se ne parla (perché anzi c’è un grande scandalismo farfugliato e sparpagliato in ogni dove a cominciare dalla TV), ma nell’altro, cioè, dell’assenza di un livello di approfondimento dei problemi della democrazia nella società di massa, con particolare riferimento al nostro caso nazionale, ma senza ignorare che problemi analoghi affliggono anche gli altri paesi europei, magari puliti e virtuosi.

 

Ai tempi della prima Repubblica un dato emergente era rappresentato dai minimi spostamenti nei risultati che si verificavano ad ogni competizione elettorale, laddove in questa attuale seconda Repubblica bastano sondaggianche a breve scadenza l’uno dall’altro per evidenziare veri e propri sbalzi negli umori dei cittadini. 

 

Nel secondo dopoguerra l’iscrizione ai partiti non soltanto era notevole, ma rappresentava per gli iscritti una dimensione della personalità, un fatto culturale e insieme psicologico in grado di coinvolgere tutta la persona, una vera appartenenza, in particolare poi per chi aveva in tasca la tessera del PSI o del PCI - l’operaio che vedeva nel “Partito” lo strumento e il simbolo del riscatto - o per il democristiano veneto-lombardo per il quale l’appartenenza alla DC era la proiezione della propria posizione religiosa sul terreno politico, o meglio etico-politico.

 

La crisi, già in atto da tempo, ma resa “terminale” da tangentopoli,ha lasciato milioni di italiani privi di punti di riferimento, sbandati ed esposti a rapide conversioni di orientamento politico, ma soprattutto a lasciarsi dominare dallo sconforto, dalla disillusione. Sono sorte nuove formazioni politiche, è vero: Cinque stelle, la Lega (prima più o meno fenomeno veneto-lombardo) e poi Berlusconi… ma nessuna ha toccato il vero problema, anzi non se lo è nemmeno posto, perchè si è trattato in gran parte di manifestazioni di malcontento che ci hanno regalato populismi di varia natura, incapaci di analisi adeguate dell’accaduto.

 

Il punto di vista più ampio e significativo (e preoccupante) lo ha espresso l’elettorato. Che si è rifugiato soprattutto nell’astensione dal voto; le percentuali che le varie formazioni politiche presenti alle urne vengono ostentando e sulla base delle quali fanno conti e sopraconti si riferiscono alla metà, scarsa, degli elettori che votano e che sono del 30/40 per cento inferiori a quelle dei tempi felici della prima Repubblica: il più grosso partito è quello degli astenuti.

 

Il problema, è ovvio, riguarda anche il Partito Democratico, ultima fase di una convergenza sempre sofferta, ma semisecolare, anche se piena di contraddizioni, tra il maggior partito della sinistra e la sinistra cattolica. Certo oggi il Premier-Segretario del partito sta cercando di uscirne, ma lo fa all’insegnadi un iperattivismo compensatorio di decenni di immobilismo sonnacchioso e tentando un percorso di riforme che sembrano quasi tutte fermarsi al punto in cui cominciano a diventare interessanti.

 

Giorgio Napolitano, che ha sostenuto con convinzione il percorso della nascita del nuovo Senato, ha però richiamato l’attenzione sulla legge elettorale necessaria… Sulla riforma del Senato è utile qualche considerazione: stampa e media favorevoli si soffermano soprattutto sulla prima parte, quella che riguarda l’abolizione del bicameralismo perfetto, laddove maggiore attenzione dovrebbe essere riservata anche alle caratteristiche Senato delle autonomie, costituito da rappresentanti delle regioni e dei comuni nonché da cinque membri nominati dal Presidente della Repubblica...

 

Il nuovo Senato dovrebbe essere un organo del sistema delle autonomie, chiamato ad approfondirne il senso e l’impatto sul livello nazionale. Sono ricalibrati i poteri regionali, mentre l’aver composto la nuova altissima Assemblea con amministratori regionali e locali dice con chiarezza che si è voluto creare un luogo di riflessione e di discussione anche sulle conseguenze che le politiche delle regioni e dei comuni determinano al livello dello stato (si pensi anche solo alle gestioni delle aziende pubbliche fiorite in sede locale, ai trattamenti economici …).

 

Nello stesso tempo anche un meccanismo che potrà portare alla conoscenza in tutto il paese della vera natura e portata di grandi problemi, qualcosa di molto diverso dalle notizie e dai dibattiti che offre soprattutto la televisione, per non parlare del web. Si presenta, però, quasi come una scommessa, perché si tratta di un libro con le pagine bianche. E su questo punto la presenza dei cinque componenti di nomina presidenziale può assumere un ruolo determinante.

 

La riforma appare ispirata al Bundesrat tedesco, ma l’Italia non è la Germania… Né il PD ha fatto la sua Bad Godesberg, che pur dovrebbe predisporre per farne uno strumento di impatto nazionale e non soltanto un’occasione per addetti ai lavori.

 

Dar vita allora a una sorta di Fabian Society per svolgere un ruolo politico/culturale simile a quello svolto di Sidney e Beatrice Webb intorno al nascente Labour party un secoli fa?

 

 


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