Lo abbiamo sottolineato più volte anche su questa agenzia, in politica la matematica è più che mai un’opinione; a maggiore ragione in questa stagione di forti contrasti in cui si procede a colpi di propaganda; e il Premier, in questa nobile arte di utilizzare i numeri a beneficio della propria tesi e della propria narrazione, è secondo a nessuno.
In tal senso, i dati Istat sull’economia italiana per l’anno 2015 sono stati una ghiotta occasione per mettere a tacere i gufi e le loro “chiacchiere che stanno a zero”. Questo grazie soprattutto allo 0,8% di crescita del Pil. Mai cosi da un bel pezzo. C’è da rallegrarsene, ci mancherebbe; perché è meglio dello 0,7% previsto nella Manovra finanziaria - avrebbe detto il compianto Catalano del programma cult anni ’80 “Quelli della Notte”.
Intendiamoci, battute a parte, ciò che ci dice l’Istat nell’ordine dei decimali di punto, se non è un’inversione di tendenza, almeno è una frenata della discesa; e questo fa bene Renzi a rimarcarlo, al netto dei toni da vittoria ai campionati del mondo. Tuttavia, è diventata stucchevole la storiella dei gufi, per il sol fatto che si guardano certi dati per quelli che sono, mettendo in guardia da facili e strumentali entusiasmi.
Per esempio, va bene il Pil in crescita anche se di poco, visto l’andazzo di questi anni. Non va però taciuto, e preoccupa, il fatto che esso sia inferiore di più della metà alla media di crescita degli altri paesi, per giunta ottenuto in una fase congiunturale mai così favorevole a una economia fortemente dipendente dal petrolio, oggi quotato a prezzo di costo.
Quanto allo 0,3 per cento in meno di imposizione fiscale, non vale nemmeno la pena soffermarsi, visto il livello vessatorio della tassazione in Italia.
Sul fronte dell’occupazione qualcosa invece indubbiamente si muove, anche se la dinamica contraddittoria sui diversi fronti di-soccupazionali impedisce un’analisi scevra da strumentalizzazioni di breve periodo, quando invece il tutto necessità di tempi più ampi per valutare con un minimo di onestà intellettuale se sia vero oro quello che luccica dietro il Job act e quanto questo possa davvero incidere sulla ripresa.
Più significativo invece il dato sul rapporto deficit/pil, sceso saldamente sotto il 3%. La cosa servirà nella trattativa per allentare i cordoni della borsa a Bruxelles, ma non va preso come parametro salvifico. Il numero da tenere sott’occhio è piuttosto quello sul debito pubblico. Su questo fronte niente di nuovo: 132,6% del pil, 0,1% in più del 2014.
Gli esperti ci dicono che il debito può calare significativamente solo con la crescita. Ma è pur vero che la crescita è frenata dal peso del fardello su cui è vissuto il paese dal dopoguerra a oggi. Un circolo vizioso, insomma. Come uscirne? Di sicuro non con politiche di piccolo cabotaggio elettorale, confermate in questo biennio anche da Renzi. La visioni deve essere giocoforza di lungo periodo, lungimirante, con interventi non facili da digerire per la collettività, tenendo comunque in conto che non è saggio usare l’accetta. In caso contrario rassegniamoci agli zerovirgola in più, quando il Pil mondiale cresce, e ai forti crolli in fase di depressione. (Il tutto con l’aggravante di essere perennemente sotto la spada di Damocle della speculazione internazionale: vedi spread).
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