Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

23/11/24 ore

Italia al voto


  • Silvio Pergameno

A partire dal giugno 2016 nella condizione politica dell’Europa si sono rivelate profonde novità, la Brexit prima di tutto e poi le elezioni in Francia e Germania, cui seguiranno, ormai a breve quelle nel nostro paese: nel giro di venti mesi cioè l’Unione Europea ha perso uno dei quattro maggiori stati membri, mentre negli altri tre occorre capire bene cosa sta succedendo, in particolare rispetto al dato di maggior rilievo, cioè le prospettive del processo di integrazione.

 

La Brexit: l’Unione ha certamente perduto una grande nazione, ma mi permetto di osservare che l’abbandono del Regno Unito rappresenta un chiarimento, perché profonda è sempre stata la differenza tra l’idea di Europa degli inglesi e quella degli altri. I primi hanno sostanzialmente pensato a poco più che una stabile zona di libero scambio e al riconoscimento della necessità di tenersi uniti per andare d’accordo invece di insistere nella follia delle guerre tabula rasa.

 

Per l’Italia, la Francia, la Germania, la Spagna… invece esisteva (ed esiste) un altro fondamentale problema, quella malattia che mina il rapporto fra stato nazionale e democrazia. Anche per la Francia, la Francia napoleonica, la Francia dopo Sedan, quella dell’affaire Dreyfus e dell’omicidio di Jean Jaurès allo scoppio della prima guerra mondiale, la pace sbagliata di Versailles, il collaborazionismo di Pétain e di Laval… e oggi – la sconfitta madame Le Pen a parte – un’idea di nazione concentrata su un’identità affettiva e incapace di ragionare sulla storia degli ultimi centocinquant’anni.

 

Ecco perché è indispensabile non trascurare mai la lezione che viene dal “Manifesto di Ventotene”, che non offre una generica aspirazione europeistica da citare a ogni buona occasione, ma già nel 1941 indica con sicurezza l’obbiettivo di una federazione europea, perché dopo la vittoria sul nazismo non si sarebbero dovute riprodurre le stesse strutture di prima, per evitare le stesse conseguenze. Che è invece proprio quello che si è fatto dopo il 1945, con qualche accortezza, certamente, ma del tutto insufficiente.

 

°°°°°°°°°°°°

 

Oggi la Germania stenta a formare un governo …, le previsioni delle elezioni in Italia il prossimo marzo sono pessimistiche, perché si teme  l’ingovernabilità… il governo spagnolo affronta gli indipendentisti catalani con le maniere forti (che è un indice di debolezza politica e insieme un segnale pericoloso)… a est compare una destra come quella di Orban e  di Kaczinski…

 

…mentre ha un senso profondo la svolta di Macron nel momento in cui i partiti tradizionali spariscono e sopravvivono i soli gollisti, eredi del Generale che forse pensava di aver risolto tutti i problemi della Francia con la nuova costituzione “presidenzialista” (necessaria, ma non sufficiente…). Macron che si  presenta con una chiara indicazione di rilancio del processo di integrazione europea, un segnale che viene proprio dalla Francia, che sinora aveva sempre opposto le maggiori resistenze.

     

L’Italia va al voto il prossimo 4 marzo e sembra andarci con le idee assai poco chiare, con la previsione di un esito con tre partiti, nessuno fornito di una maggioranza sicura e con un astensionismo sempre in aumento, mentre poi il “Movimento 5 Stelle”, che si propone proprio di recuperare i disertori del voto, nelle recentissime elezioni in Sicilia ha fatto cilecca, perché i votanti sono stati ancora meno che nelle precedenti elezioni del 2012.

 

In sostanza si va al voto per spartirsi la minoranza che già va a votare, senza preoccuparsi del problema principale, cioè del fatto che, chiusi i seggi, le urne restano sempre più vuote. Una rinuncia grave, con conseguenze piene di rischi.

 

Ci si appella all’antifascismo, ma sembra un esercizio retorico, perché si ignorano i pericoli attuali; si invoca la costituzione, ma si ignora proprio il fatto che le norme che essa contiene per assicurare la governabilità (certo insufficienti, ma non mancano) sono state costantemente aggirate creando il regime dei partiti, mentre, sconfitto questo regime, si continua ad assicurare qualcosa di ancora meno credibile (e vedi l’esito del referendum del 4 dicembre 2016)… 

 

Un articolato intervento su questi problemi è stato offerto - il giorno prima di Natale – da “La Repubblica”, a firma del fondatore del quotidiano. Dice molte cose. Dice che voterà PD, erede del partito di Berlinguer; che dalle elezioni usciranno tre partiti, ma nessuno fornito di una maggioranza propria; ritiene che ci sarà la continuazione del governo Gentiloni, certo il migliore possibile, ma privo di una maggioranza sicura, ragion per cui avremo nuove elezioni nel 2019, con esito analogo.

 

Si augura che il PD si ricomponga come era prima, recuperando così molti cittadini confluiti nei “5 Stelle” e aprendo la possibile prospettiva di avviarci verso una democrazia classica, con due partiti, come avviene in tutte le democrazie bene ordinate. Senza dimenticare che l’Europa dovrebbe essere rafforzata e realizzare finalmente una federazione.

 

Un pis aller, a dire il vero. Perché accetta la situazione così come è; perché non si cura del recupero degli astenuti; perché muove dal presupposto errato che il PD sia erede del partito di Berlinguer, mentre è erede dell’Ulivo e della Margherita (dalla quale provengono sia Renzi che Gentiloni che Enrico Letta… ) e quindi è tutt’altro che scontato che la riunificazione del PD con MDP apra la possibilità dell’avvio della nostra democrazia verso la sua forma più compiuta… Ci vuole ben altro.

 

La condizione attuale della nostra democrazia è sicuramente difficile, ma ci troviamo dinanzi a una sfida da raccogliere, come ha fatto Macron il quale di fronte alla crisi dei partiti ha colpito gli avversari sul punto nel quale sono più incerti e scoperti: quello dell’integrazione europea, che non può essere evocata solo con una frase di routine; i nemici di un’Europa veramente unita oggi non hanno il coraggio di dire apertamente: andiamocene, si trincerano dicendo che bisogna fermarsi al punto dove siamo: vorrebbero saltare l’ostacolo; ma non hanno il coraggio.

 

E Macron ha capito, ha raccolto la sfida e ha condotto una campagna elettorale in nome dell’Europa. E ha vinto. Certo, è una premessa, un punto di partenza, ma gli avversari sono rimasti tramortiti. Un segnale aperto per tutti. 

 

 


Aggiungi commento